Perché il film che ha vinto Locarno più che cinema è una punizione

Mariarosa Mancuso

Film estenuanti, carichi di pretese artistiche, punitivi per lo spettatore, pensati e girati a misura dei critici che usano come cartina di tornasole lo sbadiglio. Non ci libereremo mai del cineclub

Oliver Sacks racconta nei suoi romanzeschi casi clinici la storia di un giovanotto rimasto incastrato negli anni Settanta: l’acido lisergico non gli aveva giovato come a Cary Grant, che con cento pasticche ingoiate sotto la guida dello psichiatra curante giurò di avere risolto le proprie paturnia. “L’ultimo hippie” – così lo aveva ribattezzato il dottore – era fermamente convinto che Janis Joplin e Jimi Hendrix fossero ancora vivi.

 

Sul Locarno Festival si è abbattuto lo stesso incantesimo. Mentre nel resto del mondo il cinema cambia, lì ancora vige la iattura del cineclub. Film estenuanti, carichi di pretese artistiche, punitivi per lo spettatore, pensati e girati a misura dei critici che usano come cartina di tornasole lo sbadiglio. Se la mascella si sloga, scatta l’applauso. In fase di recensione e commento, quantomeno: capita di girarsi, nella sala buia, mentre si medita la fuga, gli appisolati che russano con il capino abbandonato sono sempre tanti.

 

Il Palmarès dell’edizione numero 70 – nelle intenzioni non voleva essere celebrativa, ma punto di partenza per altre entusiasmanti avventure, annunciò il direttore Carlo Chatrian – colloca Locarno nella terra dimenticata dal tempo. E soprattutto dall’amore per il cinema. Si leggono i titoli pensando “Non può essere vero, ora diranno che era uno scherzo e la giuria presieduta da Olivier Assayas sputerà il nome dei veri vincitori”.

 

Non succede. Il Pardo d’oro è davvero andato al regista cinese Wang Bing per il suo “Mrs Fang”. Trama: il lento spegnersi di una contadina settantenne malata di Alzheimer. Dall’ospedale l’hanno dimessa, non c’erano più cure possibili. I familiari la portano nella casupola (fuori piove sempre). Il regista le inquadra il volto: occhi sbarrati e bocca aperta. Le ginocchia sono fredde, riferiscono i familiari mentre giocano a carte, litigano, organizzano il funerale. Interminabili primi piani sulla moribonda, finché lo spettatore comincia a chiedersi cos’ha fatto di male per meritarseli. E non riesce a trovare una sola differenza tra queste immagini – video-istallazione, ha scritto qualcuno in un delirio di interpretazione – e la famigerata tv del dolore.

 

Accantonato l’orribile neorealismo – che mai uscirà nei cinema, anche questo rientra nella migliore tradizione locarnese – passiamo al secondo classificato, Premio speciale della giuria. Brasiliano, diretto da Marco Dutra e Juliana Rojas, titolo “As Boas Maneiras”, ovvero “Le buone maniere”. Genere: horror, ma senza popcorn. Siamo in Brasile, quindi abbiamo i servi e i padroni: una borghese incinta e la governante. Si baciano e amoreggiano (del momento lesbico-chic non fa a meno neppure Francesca Comencini in “Amori che non sanno stare al mondo”). Poi si capisce che i registi puntano al sequel – non autorizzato, Polanski dovrebbe far causa – di “Rosemary’s Baby”. Nasce un bambino-lupo, che ulula nelle notti di luna piena.

 

Premio per la migliore regia a “9 Doigts” di F. J. Ossang. Noir metafisico, altra categoria cara ai cinefili privi della minima infarinatura in materia (basterebbe aver sfogliato la “Storia della Filosofia” di Luciano De Crescenzo per non cadere in certe trappole). Un uomo scappa dalla polizia, inciampa sulla spiaggia in un moribondo che gli consegna qualcosa, finisce prigioniero su un cargo diretto chissà dove (la bandiera liberiana non c’è ma ci starebbe bene). Discorrono dei massimi sistemi, nel bianco e nero che tutto nobilita. Condannati alla noia, esprimiamo l’ultimo desiderio: potrebbe ogni giurato riassumere la trama con parole sue?

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