Jacques Tourneur

Un genio come Tourneur e una lezione: i capolavori sono figli del mercato

Mariarosa Mancuso

Film con le bare e non, al Locarno 2017

I film con le bare riescono sempre, perfino ai registi italiani. “Easy” di Andrea Magnani, in coproduzione con l’Ucraina (visto al Locarno Festival, in sala dal 31 agosto) racconta un giovanotto sovrappeso, ex pilota di go-kart, che alla guida di un carro funebre si avventura nel profondo est. Il defunto era un operaio caduto da un’impalcatura, va restituito ai parenti nei Carpazi. Per colonna sonora, “Felicità” di Al Bano e Romina: funge da lingua franca quando i gesti non bastano. La bara, subito orbata del macchinone nero che fa gola ai criminali, sta al centro di spaesate inquadrature, sul ciglio della strada o su una vecchia carrozza a cavalli.

 

Figuriamoci cosa riesce a fare, con le casse da morto, un genio come Jacques Tourneur. Uno di cui a Hollywood dicevano: “Hai una sceneggiatura zoppicante? Affidala a lui, fa miracoli”. Non vale per “The Comedy of Terror” (titolo italiano “Il clan del terrore”, anno 1963). L’idea e il copione erano di Richard Matheson, sceneggiatore di “Duel” per Steven Spielberg, inventore di storie da incubo per la serie “Ai confini della realtà”, ma basterebbe dire scrittore (per esempio, di “Tre millimetri al giorno”: un uomo rimpicciolisce piano piano, va a vivere nella casa delle bambole, scappa dal gatto di casa che lo ha scambia per un topo). Grandioso anche il cast: Vincent Price, Peter Lorre, Boris Karloff - il meglio che si poteva avere per una pellicola horror. Più un gatto rosso di nome Rhubarb, che compare nei titoli.

 

John Landis racconta in “Ladri di cadaveri” il mestieraccio ottocentesco dei “resurrection men” che fornivano agli anatomisti corpi da sezionare, quando era vietato dalla legge. Nel film di Jacques Tourneur il business riguarda le bare che un becchino poco scrupoloso vende di seconda mano. Ma non crepa mai abbastanza gente, di morte naturale almeno. Serve un aiutino per mantenere i vizi propri e della consorte. L’andamento è da black comedy, con tanto di sepolto vivo – era solo in catalessi. Ancor più divertente se pensiamo che il regista – nato in Francia, naturalizzato americano a quindici anni, nel 1919 – ha girato film da brivido come “Il bacio della pantera” e “Ho camminato con un zombie”. 

 


Ladri di cadaveri (2010)


 

“Tutto si può fare se lo si fa con gusto”, spiega in un’intervista del 1966, spezzettata e riprodotta nel catalogo che accompagna la retrospettiva Jacques Tourneur al Locarno Festival (siccome il cinefilo ama soffrire, o semplicemente non legge perché guarda solo le figure, i testi sono stampati in nero su fondo grigio scuro, da rimetterci gli occhi). Dice: “La sceneggiatura era un gioiello, non mi era mai capitato prima. Una parodia di Shakespeare e dei film horror. Non ha avuto successo perché ormai al cinema vanno solo i ragazzini”.

 

Era il 1963, il telefono di Jacques Tourneur non suonava più tanto spesso. Al netto dell’amarezza, e al netto del disprezzo per i pubblico dei drive-in (che invece il giovane Peter Bogdanovich sfruttò in “Target”, il suo primo film girato nel 1968, con Boris Karloff nella parte dell’attore famoso in declino come l’horror), il regista celebra la committenza. “Se mi mandano un copione, giro. Non ne ho mai rifiutato uno. Sono come un falegname: se mi danno un pezzo di legno fabbrico qualcosa, se non me lo danno rimango fermo”.

 

A 50 anni si mise a lavorare per la televisione, allora era considerata poco più che un rifugio dove mestamente finire la propria carriera. Era abituato a girare veloce – per “Il bacio della pantera” erano previsti 17 giorni di riprese, lo finì in 22. Trovò ritmi ancora più rapidi: due giorni di riprese, tre al massimo, per un episodio di 25 minuti (mezz’ora con la pubblicità). Gli spettatori di “Ai confini della realtà” non badavano granché ai registi, incantati dalla voce di Rod Serling che prometteva di esplorare “the twilight zone”.

 

Con ritardo, scopriamo che era firmato Jacques Tourneur l’episodio “Night Call”. Una vecchietta dopo una serie di telefonate mute scopre che la linea finisce al cimitero, nella tomba dell’ex fidanzato morto prima delle nozze, 40 anni prima. “Vorrà mettersi in contatto con me”, pensa, neppure tanto spaventata. Il telefono squilla di nuovo, sentiamo la voce del morto, per niente nostalgica. Felice, piuttosto, per lo scampato pericolo: “Mi comandavi a bacchetta, fai questo e fai quello, non ti sopportavo più”.

 

Era figlio di Maurice Tourneur, altro regista francese che aveva fatto fortuna negli Stati Uniti (suo era “The Bluebird”, dall’opera teatrale del premio Nobel Maurice Maeterlinck: l’uccellino magico che porta la felicità). Un Edipo non risolto ci doveva essere, se il rampollo tornò in Francia per girare i primi film. Commedie, per lo più, che si aggiungono agli altri generi abilmente coltivati: western, thriller, noir come “Le catene della colpa”, il peplum “La battaglia di Maratona” (firmato Mario Bava e Bruno Vailati nei crediti italiani, Tourneur ricorda l’ottima paga e la lentezza), “La leggenda dell’arciere di fuoco”, con Federico Barbarossa imperatore in Como.

 

Commedie musicali e no, basate sugli equivoci come “Pour être aimé”: il miliardario stufo di farsi rincorrere per i suoi soldi si finge barista. O “Les filles de la concierge”, anno 1933: una figlia sposa l’autista, dell’altra si innamora il ricco con l’autista, la madre inventa bugie. Fu un colpo di fulmine, di Jacques Tourneur con le portinaie: “Non si fanno abbastanza film su di loro, son personaggi da scoprire”.

 

“Cat People” – da noi “Il bacio della pantera” – nacque dal titolo che piaceva a un dirigente della RKO (neanche lo aveva inventato lui, glielo aveva suggerito un conoscente). Inventarono la storia di Irina, bella ragazza serba che vive a New York, convinta di appartenere a una stirpe di donne che se si lasciano avvicinare da un uomo diventano pantere. Prima vittima: lo psicoanalista che freudianamente spiega “è solo paura del sesso, ora glielo dimostro”. La afferra per baciarla e lei lo fa a brandelli. Ecco come si fabbricavano i capolavori. Un po’ per caso e un po’ per obbedire a ordini superiori, altro che artisti.

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