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Don Carlo Caffarra, incatenato alla verità come a una roccia

Stanislaw Grygiel

“So che le batoste che si prende sono destinate a me”, disse un giorno Giovanni Paolo II. Un’amicizia durata quarant’anni. Ricordo di un amico cardinale che amava tutti tranne Chopin

Uno dei più grandi doni che Dio mi ha offerto è la presenza del cardinale Carlo Caffarra nella mia vita. Nella bellezza della sua amichevole persona si svela per me – ora, dopo la sua morte, con una forza raddoppiata – la verità dell’uomo, alla cui chiamata ognuno deve rispondere con l’amore e con il lavoro. Oso dire che il cardinale si è incatenato a questa verità come a una roccia: non riusciva a vivere che nella e della verità. L’amore con cui edificava la propria dimora sulla verità lo rendeva uomo libero. Induceva ammirazione negli uomini desiderosi di tale libertà. Suscitava vergogna nei pusillanimi, a volte faceva insorgere in loro ire nascoste. Per tutti provava un cordiale amore. Lo rifiutavano soltanto quelli che si vergognavano di se stessi. Per giustificarsi tacciavano di fanatismo il suo coraggio evangelico, grazie al quale il suo parlare era sempre “sì - sì” oppure “no - no”. Opponendosi alla sua testimonianza, rivelavano la propria miseria morale e la propria apatia intellettuale di fronte alla circostante realtà. Con un umile coraggio, il cardinale affrontava le sfide della modernità che mette al bando la difficile bellezza della verità dalla vita delle persone e della società.

 

Io lo conobbi a Roma nel 1979 in occasione di un congresso dedicato alla catechesi, al quale ero stato invitato dal cardinale Ugo Poletti, allora vicario della diocesi del Papa. Il giovane sacerdote Caffarra impressionò; ebbi modo di ammirare il coraggio e la fervida convinzione con cui condusse un intervento assai critico nei confronti del catechismo recentemente pubblicato dall’Episcopato italiano. La sua profonda fede in Dio, l’affidamento allo Spirito d’Amore trinitario e la visione della Chiesa si accordavano con quanto io avevo visto e vissuto nell’Uomo che appena qualche mese prima era venuto a Roma “da un paese lontano”. Durante una pausa tra le sessioni, in un nostro breve dialogo, accadde in noi qualcosa che continua ad accadere e che fa sì che l’amicizia con Carlo Caffarra solo ora, quando la coscienza della sua partenza comincia a far male, mi dice chi sia l’uomo quando davvero è uomo.

 

Un anno dopo, nel 1980, san Giovanni Paolo II lo chiamò a Roma perché realizzasse il suo progetto di un Istituto dedicato agli studi filosofici e teologici antropologicamente orientati sul matrimonio e sulla famiglia. Il Papa era giunto a Roma da Cracovia già formato dall’amore vissuto nei e con i giovani da lui preparati alla vita nel matrimonio oppure nel celibato, che anticipa nel tempo il matrimonio dell’uomo con Dio nell’eternità. Don Carlo Caffarra era stato formato dalla medesima esperienza ed era perciò proprio lui il perfetto esecutore della volontà di san Giovanni Paolo II. L’incontro di questi due grandi sacerdoti diede inizio alla loro imperitura amicizia e lasciò nella vita della Chiesa tracce indelebili che nessuna forza riuscirà a distruggere poiché sono state impresse non solo sulla carta ma soprattutto nei cuori e nelle menti degli uomini.

I tempi in cui l’Istituto venne fondato erano improntati dalla mancanza di riflessione antropologica sui problemi fondamentali della vita nel matrimonio e nella famiglia, cosa che si ripercuoteva negativamente nella pastorale. San Giovanni Paolo II ben sapeva come non bastasse conoscere soltanto la tecnica del fare per poter essere un pastore. La presenza del pastore in mezzo agli uomini affidato al suo lavoro deve essere una pratica epifania della verità dell’uomo, verità che è Cristo. Egli, Cristo, e non il sacerdote, compie ciò che nel più profondo senso del termine si chiama praxis pastorale. Il santo Papa aveva voluto che l’Istituto da lui fondato sviluppasse la primordiale idea dell’università come comunione dei professori e degli studenti che insieme pregano e lavorano, insieme gioiscono e insieme sono in pena. Egli aveva voluto che, senza trascurare il rigore accademico, questo Istituto avesse il carattere di una comunità famigliare, riunita nella comune domanda sulla verità dell’amore e della libertà e nella comune ricerca di questa verità. Don Carlo Caffarra riuscì a realizzare il desiderio di Giovanni Paolo II in modo tale che ancora oggi i professori, gli studenti e gli addetti si sentono nell’Istituto come nella loro casa famigliare. Per l’esperienza vissuta a Cracovia il santo Papa ben sapeva che la presenza nel mondo di pastori formati in un tale Istituto avrebbe portato frutti abbondanti.

 

Don Carlo Caffarra aveva compreso senza difficoltà l’idea di san Giovanni Paolo II, poiché entrambi erano preoccupati per il futuro della pastorale delle famiglie in un’epoca di miseria provocata dalle moderne ideologie che eliminano la verità dalla società e con essa eliminano anche la libertà, l’amore e la giustizia. Questi due santi sacerdoti erano tormentati dalla sempre attuale domanda di come preparare i cristiani a una presenza nel mondo tale da renderli epifanie della verità che, partecipando dell’eternità, vince il tempo, senza mai cessare di essere attuale. Entrambi sapevano che le emozioni, la compassione sentimentale e, per quanto si dica, la misericordiosa indulgenza nei confronti della miseria in cui il peccato trascina l’uomo, non sostituiranno mai la verità. L’affermazione della verità e del bene, e la condanna della menzogna e del male, che sono la loro negazione, hanno reso il cardinale Carlo Caffarra un uomo assolutamente inabile al compromesso col peccato. Egli amava gli uomini, tuttavia il suo amore della verità, cioè la libertà, era così grande da obbligarlo a dire loro la verità sul loro comportamento senza riguardi per le conseguenze. Il cardinale, come anche san Giovanni Paolo II, ha amato gli uomini nella verità e ha amato l’amore umano. Mai fu condizionato dalla paura di perdere qualcosa. Egli non si lasciava guidare che dal timor Dei. La sua libertà, la cui sorgente scaturiva dall’amore della verità, rendeva il suo pensiero chiaro e addirittura trasparente. Perciò le sue parole tracciavano un percorso logico e senza interruzioni che portava i suoi uditori e lettori a ciò che trascende i pensieri e le parole. Egli parlava in modo chiaro e umile soprattutto di ciò di cui parla la docta ignorantia. La sua docta ignorantia era clara et distincta. Essa seguiva la regola che la negazione di qualche affermazione non si identifica con il suo sviluppo. Caffarra ricordava come il teologo che ritenga che per poter fare un progresso nella comprensione della natura della persona umana occorre mettere in dubbio per esempio ciò che Cristo e la Genesi dicono del matrimonio, susciti il caos nella vita della Chiesa. Alla fine della vita la grande tristezza e dolore provocati dalla teologica e pastorale confusione martirizzavano il cardinale. Essi non hanno tuttavia alterato il suo stare fedelmente nell’attaccamento alla verità e il suo porre la speranza nella vittoria finale. Fino all’ultimo giorno è stato presente per gli altri, fino alla fine della vita ha fatto piani per il futuro. Prima delle ultime vacanze avevamo stabilito cosa fare in autunno per il prossimo anno. Sono convinto che tutto procederà secondo il nostro progetto, solo che in un diverso modo.

 

La fede mi infonde la fiducia che il cardinale ci aiuterà ad amare e a lavorare meglio, cioè ci aiuterà a vivere meglio. Dimorando con Dio, rimarrà con noi per darci la mano nel nostro prepararci alla piena unione con la verità eterna. Immagino l’incontro di Carlo Caffarra con Giovanni Paolo II. Cerco di ascoltare il loro dialogo e anche – e perché no? – la loro preghiera. Infatti le domande che costituivano l’essenza stessa dei colloqui con Giovanni Paolo II e col cardinale risultavano domande di preghiera per ricevere da Dio ciò che ci manca (cfr Lc 10, 42) e che calma il mare tempestoso sul quale navighiamo (cfr Mc 4, 35 e s.). La loro fedeltà al “dono di Dio” (cfr Gv 4, 10), cioè alla verità dell’uomo creato maschio e femmina orientati nel loro reciproco amore a Dio, si esprimeva nella cura pastorale degli uomini che soffrivano di un’antiumana poiché antidivina comprensione dell’amore dovuto all’uomo. Coloro che hanno dimenticato cosa sia di cui l’uomo manchi, hanno accusato Giovanni Paolo II e il cardinale Carlo Caffarra di un idealismo fanatico.

 

La loro saggezza si rivelava nel loro saper soffrire. Nei primi anni dell’esistenza dell’Istituto fondato da Giovanni Paolo II le critiche e le accuse ricadevano soprattutto sulle spalle di don Caffarra. Giovanni Paolo II sapeva però bene contro chi fossero puntate. “So” – mi disse un giorno – “che le batoste che prende adesso Caffarra sono destinate a me. Dio gliene darà ricompensa. Intanto Egli fa vedere come questo Istituto sia necessario per la Chiesa”. Il primo direttore dell’Istituto e suo cofondatore riceveva queste batoste con fede serena, con grande speranza e con fervido amore. E’ in quel tempo che ebbi modo di toccare la sua saggezza e la sua libertà, e quindi la sua santità.

 

Non posso “perdonarlo” soltanto di una cosa. Egli, grande amatore e intenditore della musica di Mozart, un giorno dopo aver ascoltato con me una delle sue opere, alla mia domanda se avesse qualcosa di Chopin, mi rispose con malizia ma con un sorriso amichevole: “Ne ho, ma non molto. Stashiù, dicono, che era grande compositore”. Oggi, dopo più di trenta anni da questo “scontro”, spero che il mio amico ascolti in Dio anche la musica di Chopin e l’apprezzi. Quella sera mi aveva procurato quel dolore che solo può sorgere tra amici: il mio amico non sapeva godere come me, polacco, del genio del polacco Chopin.

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