Giovanni XXIII

Il Papa militare

Matteo Matzuzzi

La polemica su Giovanni XXIII patrono dell’Esercito e i Pontefici ridotti a Dalai Lama cattolici

Roma. “Una storiaccia”, la definisce indignato il professor Alberto Melloni, incredulo che il santo Giovanni XXIII sia stato proclamato patrono dell’Esercito italiano dopo vent’anni di iter burocratico (la colpa va però fatta ricadere sul pericoloso conservatore Robert cardinal Sarah, che ha apposto la firma ultima sull’atto). E con lui tanti altri, esperti di affari diplomatici e storia della chiesa. Pacifisti da salotto e teorizzatori del solito fiore nel cannone. Tutti concordi nel dire che è indecente che il “Papa buono” sia stato messo sui santini da distribuire ai militari che vanno in missione per il mondo. No, il “Papa della pace” a benedire armamenti e carri armati proprio non si può vedere. Come se gli altri Papi, tra i quali parecchi santi, fossero Pontefici della guerra.

 

Melloni insiste, scrive che “chi ha fatto Papa Giovanni patrono dell’Esercito farà Papa Francesco patrono di Piazza Affari”. Sarebbe stato sufficiente, prima di ingaggiare una polemica così puerile, andarsi a leggere quel che Giovanni XXIII scriveva sulla sua esperienza tra le file dell’Esercito, lui che – a differenza dei cattedratici dispensatori di verità che si pretendono dogmatiche – tra le trincee c’era andato. “I ricordi incancellabili e profondamente umani, legati alle nostre esperienze di vita militare, si affacciano al pensiero più vivi che mai, e rinnovano le emozioni e le consolazioni provate in quei lontani giorni”, diceva Roncalli nel 1959. Aggiungeva, il Papa, che “indimenticabile fu il servizio che compimmo come cappellano negli ospedali del tempo di guerra. Esso ci fece raccogliere nel gemito dei feriti e dei malati l’universale aspirazione alla pace, sommo bene dell’umanità”. E, ancora, “mai come allora sentimmo quale sia il desiderio di pace dell’uomo, specialmente di chi, come il soldato, confida di prepararne le basi per il futuro col suo personale sacrificio, e spesso con l’immolazione suprema della vita”.

 

Perfino Loris Capovilla, lo storico segretario di Giovanni XXIII, sventolato per decenni come bandiera dei combattenti novatori, s’era detto felice dell’idea di fare del suo amato Papa il patrono dell’Esercito. Ma al fronte indignato non basta. Il “Papa della pace” che secondo un romanzo trasmesso di generazione in generazione avrebbe con l’enciclica Pacem in terris bloccato la guerra nucleare al largo di Cuba tra Kennedy e Kruscev – la voce di Roma fu naturalmente ascoltata, ma di certo non determinò la ritirata sovietica, come dimostrato da innumerevoli pubblicazioni scientifiche non interessate alle cortigianerie vaticane – è stato ridotto così a una sorta di Dalai Lama cattolico, pacifista e poco altro. Basterebbe leggere Emilio Lussu, il suo Un anno sull’Altipiano per andare al di là del cliché del militare bombarolo. O un libro qualsiasi di Mario Rigoni Stern, l’uomo del ritorno sul Don per il quale la religione non era altro che “fermarsi in silenzio nel bosco”, che andò fiero del suo cappello d’alpino fino all’ultimo respiro, nonostante disprezzasse la guerra. Pagine bellissime di fratellanza, d’unione nel dolore e nella tragedia che un altro Papa, Benedetto XV, aveva ben definito in quella Nota del 1917 in cui biasimava l’inutile strage. Esperienze di vita, incontri narrati in opere che evidentemente anche i più dotti ignorano e che non si trovano neppure nelle fornitissime biblioteche del Monastero di Bose, dove i monaci – si apprende – ancora non si capacitano di come sia stato possibile il verificarsi di questa storiaccia.

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.