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Porpore al vento

Matteo Matzuzzi

La cura drastica imposta da Francesco alla curia romana. In attesa della rivoluzione d’autunno

“Manovre”. Il cardinale Gerhard Ludwig Müller ha usato questa parola, in italiano e senza tentennamenti, per definire la sua sostituzione alla testa della congregazione per la Dottrina della fede. Sostituzione decisa dal Papa e comunicata al termine di un’udienza di routine, venerdì 30 giugno, nel Palazzo apostolico. Senza strappi né scene à la Young Pope, con trasferimenti di porporati in Alaska e cerimonie di congedo più simili a viaggi verso le celle di Castel Sant’Angelo, ma con una stretta di mano e un arrivederci. La sostanza però è che per la prima volta nella storia il prefetto della principale congregazione della curia romana, la “Suprema”, è stato allontanato. Pensionato anzitempo. “Il fatto significativo è che non l’ha rimosso prima, ma ha atteso il momento in cui è scaduto il mandato”, dice al Foglio il professor Daniele Menozzi, storico della Chiesa alla Normale di Pisa, già allievo di Giuseppe Alberigo e Giovanni Miccoli, capostipiti della Scuola di Bologna. “E’ un pontificato in cui vi è libertà di manifestare le proprie opinioni, poi certo, quando si tratta di governare è evidente che il Papa vuole mandare avanti la sua linea”.

 

La storica idiosincrasia di Bergoglio
per la routine curiale,
i sospetti per quel modo di fare poco dinamico
e cristallizzato

Una mossa necessaria per dare una svolta, sostengono insomma gli equilibrati osservatori della cose d’oltretevere, lontani dalla gazzarra curvaiola che ha portato anche l’informazione a dividersi tra i sostenitori di Jorge Mario Bergoglio e i suoi oppositori, quasi fosse appunto la finale di Champions League. Una svolta che poi altro non sarebbe che la consacrazione dell’ospedale da campo universale non delimitato da paletti ma ricolmo di misericordia, aperto a tutti e per tutti sanatorio di ferite dolorose, di piaghe che fino a oggi mai erano state curate con la giusta perizia.

 

D’altronde Francesco l’aveva detto nella celebre intervista concessa al principio del pontificato alla Civiltà Cattolica, premessa sintetica del programma ufficiale del pontificato poi diffuso urbi et orbi ex esortazione post sinodale, l’Evangelii gaudium che tutto dice sui propositi e i processi che Bergoglio, preso quasi alla fine del mondo, vuole innestare. Non sa neppure lui dove andranno a parare, quali ne saranno gli esiti. L’importante è avviare, mettere in moto la chiesa. Andare al largo e poi vedere che succede. Provocare, insomma. Ignorando le conseguenze. Niente programmi manoscritti, tabelle e ordini del giorno. Nessuna scadenza ultimativa. Però idee ben chiare, quelle che già nel 2013, quando s’iniziò a parlare di rivoluzione a elezione freschissima, il fedele cardinale Maradiaga, messo non a caso a capo del comitato dei nove saggi incaricati di ridisegnare la riforma della curia, elencava apertis verbis, al mondo intero. Rievocando subito il vento dello spirito che soffiava impetuoso su san Pietro a testimoniare che tutto sarebbe cambiato, che la chiesa consumata da lotte interne, scandalucci da sagrestia e corvame svolazzante sarebbe stata ribaltata. Scossa dalla forza poco tranquilla di un Papa che quella curia l’ha sempre vista con sospetto, che veniva a Roma il meno possibile, nauseato dalle routine vaticane sempre uguali a loro stesse e capaci di soffocare ogni primula capace di farsi largo tra le nevi.

 

“Sono fermamente convinto che la chiesa sia all’alba di una nuova èra, come cinquant’anni fa, quando Giovanni XXIII aprì le finestre per far entrare aria fresca”, diceva. E Maradiaga se la prendeva in particolare proprio con Müller, il teologo tedesco già curatore dell’opera omnia ratzingeriana che Benedetto XVI aveva chiamato al Sant’Uffizio solo nell’estate del 2012, pochi mesi prima di rinunciare al Soglio petrino.

 

Müller, sull’Osservatore Romano, raccomandava calma sulle svolte invocate e suggeriva di socchiudere le finestre ché troppa aria fresca può causare spiacevoli e fastidiosi malanni, anche fuori stagione. Maradiaga, dalle colonne del Kölner Stadt-Anzeiger, quasi lo sbeffeggiava: “Lo capisco, è un tedesco, un professore di teologia tedesco. Nella sua testa c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no”.

 

"Francesco tende a dare orientamenti netti
e rilevanti che poi affida al rimuginare del popolo fedele", dice lo storico Menozzi

E però le cose non sono così lineari e semplici, anche perché “la scelta del sostituto di Müller indica la volontà di evitare ogni forzatura”, dice Menozzi – che in stampa ha mandato da poco per Morcelliana I papi e il moderno. Una lettura del cattolicesimo contemporaneo. Il riferimento è al gesuita spagnolo Luis Francisco Ladaria Ferrer, quasi unanimemente definito prelato di tendenza “centro-conservatrice”, tanto per ricadere ancora nelle classiche e forse troppo semplificatorie categorie con cui si guarda la politica ecclesiastica.

 

Ma è una svolta il cambio in corsa in quello che era il Sant’Uffizio? Secondo Robert Royal, presidente del Faith & Reason Institute di Washington e direttore di The Catholic Thing, “è difficile da dire”, anche perché “di punti di svolta ne abbiamo visti tanti, al punto che questo potrebbe esserne solo uno in più”. Ma forse c’è altro, come “la scelta di una figura più debole di Müller senza dare l’allarme che stia arrivando un cambiamento sostanziale”. Ma non è che la fatale decisione sia il sintomo della difficoltà a tenere a bada la curia, incapace di sintonizzarsi sulle frequenze stabilite da un Papa così estraneo a quel mondo? Insomma, una decisione così grave e rumorosa come tentativo ultimo per non rimanere impantanato nella palude e non finire triturato dagli ingranaggi della plurisecolare macchina romana.

 

Non è sfuggito, sul tema, il testo di Giulio Cirignano che l’Osservatore Romano ha ripreso la scorsa settimana, in cui si scriveva che “l’ostacolo maggiore che si frappone alla conversione che Papa Francesco vuol far fare alla chiesa è costituito, in qualche misura, dall’atteggiamento di buona parte del clero, in alto e in basso. Atteggiamento, talvolta, di chiusura se non di ostilità”. Insomma, “come i discepoli nell’Orto degli ulivi, ancora i suoi discepoli dormono. Il fatto è sconcertante. Per questa ragione il fenomeno va esaminato a fondo, nelle sue cause e nelle sue modalità”. “Il clero – sottolineava Cirignano – trascina dietro di sé le comunità, che invece dovrebbe essere accompagnata in questo straordinario momento. Gran parte dei fedeli hanno compreso, nonostante tutto, il momento favorevole, il kairós, che il Signore sta donando alla sua comunità. Gran parte dei fedeli è in festa. Tuttavia quella porzione più vicina a pastori poco illuminati viene mantenuta dentro un orizzonte vecchio, l’orizzonte delle pratiche abituali, del linguaggio fuori moda, del pensiero ripetitivo e senza vitalità. In fondo, il Sinedrio è sempre fedele a se stesso, ricco di devoto ossequio al passato scambiato per fedeltà alla tradizione, povero di profezia”. Roba grossa, dunque.

 

Nessuna agenda predefinita ma "tanti impulsi". Guardando
poi come questi vengono recepiti.
Le contestazioni? "Messe in contro"

Ciononostante, i nostri interlocutori hanno qualche dubbio. Soprattutto perché Francesco alla fine sa bene come muoversi con la curia, e lo fa vestendo più i panni della volpe che del leone. “Bergoglio ha cambiato molto, per esempio le strutture dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia”, dice Royal. “E’ chiaro che la congregazione per la Dottrina della fede è più centrale, ma forse proprio per questo il Papa ha deciso di agire con prudenza. Però già ignorava Müller ogni volta che voleva e farà lo stesso con un sostituto più debole. Anzi – prosegue il direttore di The Catholic Thing – farà molto di più e non vedo una forza d’opposizione dentro la curia”. Almeno non un’opposizione organizzata e capace di resistere a quella che – per usare ancora le parole di Maradiaga – è una “ventata d’aria fresca”.

 

Müller, dopotutto, lo faceva intendere nell’intervista al Foglio: inconcepibile parlare di amici e nemici del Papa tra i cardinali, non esiste. E’ impossibile, dopotutto loro la porpora e l’anello lo ricevono usque ad sanguinis effusionem, fedeli cioè al Papa fino (se necessario) al martirio. Però cordate e correnti sono sempre esistite. La disputa, non solo teologica ma anche personale tra l’ormai ex prefetto per la Dottrina della fede e Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e autore della soluzione aperturista dell’ultimo Sinodo, è palese e lo conferma. D’altronde, ricordava sempre Müller, non è che si debba cercare l’applauso a tutti i costi e poi non sta scritto da nessuna parte che si debba agire e decidere in perfetta armonia. Roland Noè, direttore dell’agenzia cattolica in lingua tedesca Kath.net non pensa che siamo dinanzi a una svolta, anche perché “in questi anni abbiamo assistito a un lento ma costante processo di ciò che chiamerei una marginalizzazione della dottrina. In questo pontificato, la ‘Suprema’ è tutt’altro che suprema. Svolge ruoli marginali di controllo e di contenimento che all’esterno spesso non sono neppure percepibili. In questo contesto, il successore del cardinale Müller è un garante, un fine teologo conservatore, espressione classica del professore gesuita della Gregoriana che mai è protagonista in primo piano ma dispone i binari in maniera tale che il treno non deragli anche se magari viaggia a una velocità troppo elevata su un terreno ancora poco conosciuto”. Per farla breve: “La sostituzione significa quindi essenzialmente una visibile rottura con i due pontificati precedenti, dove la dottrina e la fine teologia produttiva stavano al centro anche delle intenzioni pastorali”.

 

Non sarà “il caos eretto a principio con un tratto di penna” di cui ha parlato il grande filosofo tedesco Robert Spaemann, secondo cui la chiesa viaggia verso uno scisma che “non risiederebbe alla periferia, ma nel cuore stesso della chiesa”, ma “non v’è dubbio che la situazione sia complicata”, riconosce Menozzi. Tuttavia, è altrettanto vero che “il Papa questa situazione l’ha messa in conto fin dall’inizio”. Per lui non contano programmi immutabili, agende fisse e predeterminate, “il suo obiettivo è quello di dare impulsi e poi vedere come questi vengono recepiti. La sua linea non è quella di un riformismo spinto, travolgente. Bensì prudente. Francesco – prosegue lo storico della chiesa – tende a dare orientamenti, questi sì particolarmente netti e rilevanti e si potrebbe dire che in tale contesto il suo orientamento sia quasi radicale”. Una linea che poi viene “tradotta in impulsi, affidando le sua indicazioni al rimuginare del popolo fedele”.

 

Che poi qualche cardinale si diverta a fare “il discolo” (il copyright è tutto del cardinale arcivescovo di Lima, Juan Luis Cipriani Thorne, pure lui un tempo gran accusatore di Müller ma per motivi opposti, e cioè la sua vicinanza al padre della Teologia della liberazione, Gustavo Gutiérrez), per il Papa non è un gran problema. “Le contrapposizioni lui non le vede in modo negativo, è più importante che la chiesa riprenda vita, che torni a respirare dopo essere stata troppo cristallizzata”, sottolinea Daniele Menozzi.

 

La scelta del "garante" Ladaria al Sant'Uffizio, "un fine teologo conservatore
che dispone i binari
in modo tale che il treno non deragli"

A un Papa ora più libero di agire non crede Noè: “Abbiamo già visto che Francesco, anche in passato, non si è fatto limitare da nulla. E’ il Pontefice più autoritario da molti decenni a questa parte, governa a modo suo e in maniera diretta, senza interessarsi tanto di apparati che sarebbero a sua disposizione. Se vi sarà un’accelerazione (e ci sarà), non maturerà come conseguenza del fatto che Francesco si è liberto di zavorre, ma perché porta avanti in maniera decisa il suo progetto”. E qual è questo progetto? “Se lo chiedono in molti”, risponde Noè, anche per la mancante chiarezza e trasparenza dei processi; processi che riguardano innanzitutto – e anche in maniera disordinata – uno smantellamento di tradizioni”. Si torna quindi a quel che diceva Menozzi, e cioè che “la cosa importante è iniziare processi, mentre meno importante pare essere l’esigenza di dare un indirizzo chiaro a questi processi”.

 

La chiave per comprendere un po’ il metodo e cercare d’indagare quel che Bergoglio ha in mente è risalire ai quattro princìpi nuovamente esposti nel messaggio al G20 dello scorso 20 giugno, sostiene il direttore di Kath.net, “e cioè che il tempo è superiore allo spazio l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea e il tutto è superiore alle parti”. Punti dirimenti “peraltro poco discussi”, nota.

 

 

C’è la convinzione che ora, magari già dall’autunno, si entrerà nella fase-2 del pontificato, che un po’ tutti i Papi hanno conosciuto, ora caratterizzata da uno slancio riformatore, ora da una progressiva ritirata. Le attese sono alte, e non solo tra chi guarda la barca petrina muoversi tra i flutti impetuosi, con il rischio che le onde siano troppo alte per tenere dritta la barra del timone. Il rischio, insomma, di incartarsi tra troppe attese che devono scontrarsi con i ritmi compassati vaticani. “Chiariamoci. Se per riforma si intende il rinnovamento delle strutture istituzionali e di governo, allora questo può essere vero. Ma se come sembra a me – dice Menozzi – il Papa per riforma intende la trasformazione nel profondo dei cuori, cioè vuole determinare una più profonda intelligenza del Vangelo, allora non mi pare che ci sia alcuna impasse”.

 

Il punto è che, prosegue lo storico, “la chiesa è per sua stessa natura composita ed è molto più dinamica rispetto ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”. Un moto, insomma, volto a rendere irreversibili i processi avviati, affinché gli impulsi lanciati diventino da tutti udibili. “Ma niente è irreversibile!”, dice Noè: “Certa gente ama parlare del fatto che Francesco porta avanti riforme irreversibili che cambiano in maniera radicale il senso stesso della chiesa e l’esperienza di fede. Al momento, invece, si possono constatare solo grande confusione e incertezza, dovute anche a una certa eclissi della ragione”. E poi, osserva il direttore di Kath.net, “la cosa stupefacente è che mentre il Papa è accarezzato dal mondo, la chiesa in molte parti del mondo perde terreno e barcolla in mancanza di un sostegno certo. Quindi, se con le riforme ci si ferma alle strutture, tali riforme restano solo apparenza, un qualcosa d’esterno. A me – chiosa – il disinteresse per ciò che sono la chiesa e la fede sembra più che palese. Un disinteresse accompagnato da una crescente aggressività”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.