Il cardinale Caffarra durante l'omelia

Il cardinale Biffi "disprezzava chi praticava il dialogo per ridurci tutti a un minimo comune denominatore"

Matteo Matzuzzi
"Egli aveva un concetto molto alto del dialogo, e disprezzava profondamente chi lo praticava o come sforzo di ridurci tutti ad un minimo comune denominatore o al perditempo della chiacchiera da salotto. In breve: il dialogo coincide con l’evangelizzazione". E' un passaggio dell'omelia pronunciata dal cardinale Carlo Caffarra durante le Esequie del predecessore, Giacomo Biffi.

Pubblichiamo il testo integrale dell'omelia tenuta questa mattina dal cardinale Carlo Caffarra durante le Esequie del suo predecessore alla guida dell'arcidiocesi bolognese, Giacomo Biffi.

 

1.    “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” [Mt 16, 16]. Venerati fratelli vescovi, carissimi fedeli tutti, la professione di fede detta da Pietro sotto divina rivelazione, risuona in questo momento in questa cattedrale. Il nostro fratello, il vescovo Giacomo, ha costruito la sua vita, il suo pensiero teologico, il suo ministero pastorale sulla roccia di quella professione: il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
    Sopra questa certezza, il nostro fratello, il Vescovo Giacomo, ha edificato il suo cammino di fede, la sua profonda esperienza cristiana. Il cristianesimo, egli scrive, “primariamente e per sé è un fatto, il fatto della morte, della risurrezione, della totale e perenne vitalità in atto di Gesù di Nazareth” [Memorie e digressioni di un italiano cardinale, pag. 532].
    Quando l’apostolo Paolo volle come riassumere tutta la sua predicazione, ed il senso del suo faticoso ministero, scrive: “vi ho trasmesso…anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture”. E’ la parola che proviene da questa bara. “Benchè morto” il Vescovo Giacomo “parla ancora” [Eb 11, 4], e ci dice: questo è “il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale ricevete la salvezza, se lo manterrete in quella forma in cui ve l’ho annunziato” [1 Cor 15, 1-4].
    Alla luce di questa lucida consapevolezza della grandezza, del primato dell’imparagonabile unicità del Signore Gesù e dei suoi Misteri, possiamo comprendere uno degli aspetti, delle dimensioni della persona e del ministero del vescovo Giacomo. Consentitemi di dirvelo attraverso una confidenza fattami da uno dei più grandi medici del secolo scorso. “Amo troppo ogni ammalato per non odiare ogni malattia”. Il vescovo Giacomo amava profondamente “la bella Sposa, che s’acquistò con la lancia e coi clavi” [Paradiso XXXI, 128-129]. Sentiva come una sorta di gelosia perché la sposa non guardasse con desiderio altri all’infuori di Cristo. Egli amava ripetermi di non fare alcuna fatica ad osservare il nono comandamento, poiché la sposa che il Papa gli aveva dato – la Chiesa di Bologna – era così bella da non desiderarne altre.
    E’ da questa mistica gelosia che nasce la messa in guardia di questo gregge santo di Bologna dagli errori, dimostrandone – a volte in modo tagliente – l’intima inconsistenza. Egli aveva un concetto molto alto del dialogo, e disprezzava profondamente chi lo praticava o come sforzo di ridurci tutti ad un minimo comune denominatore o al perditempo della chiacchiera da salotto. In breve: il dialogo coincide con l’evangelizzazione.

 

Egli aveva una grande venerazione della fede dei piccoli, dei semplici, e non permetteva che fosse minimamente vulnerata da sedicenti teologie. Parlando dei poveri, dei semplici non posso tacere un aspetto poco conosciuto del suo ministero: l’esercizio della carità verso chi si trovava in difficoltà di ogni genere. Anche economiche.
    Carissimi fratelli vescovi, carissimi fedeli, compio ora il grato dovere di testimoniare che il vescovo Giacomo fu maestro di fede anche nella lunga tribolazione della malattia. Non potrò mai dimenticare il modo con cui accettò l’amputazione di una gamba. Il volto emanava serenità, pace, abbandono. La fede era diventata vita nel senso più profondo.

 

2.    “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà…il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose”. Carissimi fratelli vescovi, carissimi fedeli, il fatto che il nostro vescovo Giacomo vivesse come una sorta di con-centrazione in Cristo, non solo non lo distoglieva dalla vicenda umana, ma nel suo cristocentrismo ne trovava la chiave interpretativa ultima.
    Cari amici, possiamo considerare la confusa vicenda umana come potremmo guardare un ricamo. La parte inversa è una gran confusione di fili; la parte retta è un disegno intelligibile.
    La concentrazione cristologica che caratterizza la vita ed il magistero del nostro vescovo Giacomo, gli consente di vedere dentro le vicende umane il disegno del Padre.
    Ho potuto constatare più di una volta che quando parlava del disegno di Dio dentro la storia umana, era preso come da una sorta di incanto che lo affascinava.
    Un religioso, visitandolo negli ultimi giorni, meravigliato dalla sua serenità e pace interiore, gliene chiese la ragione. Rispose: “La considerazione dell’unitotalità che ho imparato leggendo i teologi russi”. Cioè la considerazione che tutto è integralmente e simultaneamente sotto lo sguardo della misericordia di Dio.
    Questo modo di guardare la realtà gli dava una grande libertà di giudizio – ubi fides, ibi libertas: era il Suo motto - sui fatti di oggi e del passato, anche dal punto di vista rigorosamente storico. Possiamo dire, usando le parole di S. Massimo il Confessore, che il nostro vescovo Giacomo ci ha insegnato a pensare ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo, e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa. E Dio solo sa quanto oggi nella nostra Chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti.

 

“Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziata la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede” [Eb 13, 7]. Questa è la raccomandazione che l’autore sacro fa ai suoi fedeli. La Chiesa non può, non deve perdere la sua memoria, ma deve custodire i suoi “ricordi” fedelmente.
    Fra poche ore il nostro vescovo Giacomo sarà deposto nel sepolcro in attesa della beata resurrezione. Scomparirà del tutto la sua presenza visibile, ma deve essere depositata nella memoria della nostra Chiesa la testimonianza di chi ci ha annunciata la parola di Dio. Cioè: “Cristo è tutto in tutti” [Col 3, 11].
    “E’ finito il tempus faciendi”, scriveva quando si ritirò, “i miei giorni residui sono diventati soprattutto il tempo dell’attesa”. Ora anche il tempo dell’attesa si è compiuto.

 

Prega per noi pastori soprattutto, caro fratello, perché non dimentichiamo mai che la più grande povertà dell’uomo è non conoscere Gesù Cristo.

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.