Il sacro pesce

Sofia Silva

I primi a rifiutare la morte sono i gò. Pesci di Laguna che riluttano il mare, antichi strumenti di...

Cosa chiedono i mercati, all’Italia, lo sappiamo da tempo: crescita, produttività, riforme strutturali, meno tasse sul lavoro, mercati aperti, concorrenza, ritocchi sull’Iva, manovre correttive, conti in regola, debito da ridurre, deficit da rispettare. Ma cosa chiedono gli altri mercati, quelli che troviamo nelle nostre città, alla politica, alla classe dirigente, all’opinione pubblica? Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori foglianti di andare a raccontare i grandi mercati italiani. Otto storie, otto città, un’altra idea di paese. Buon divertimento

 


 

Giorni fa il direttore del Foglio mi ha proposto di scrivere un articolo sul mercato ittico di Rialto; la notte sono stata raggiunta da un sogno.

 

Camminavo lungo una fondamenta; costeggiavo un canale piuttosto largo. Al mio fianco, case grigie più alte di quelle che sovrastano il Ghetto sfociavano in archi rampanti posti a sostegno di nulla; si lanciavano nell’aria. Gli ultimi piani dei palazzi si aprivano sul cielo ed erano popolati da arbusti e principesse effigiate in pietra d’Istria. Benché quella città fosse in tutto e per tutto Venezia, nel sonno avvertivo di poter essere anche altrove, forse a Istanbul; la luce che mi raggiungeva era più cruda, meno confidenziale, di quella veneta. L’acqua del canale trasportava casse di legno marcescente, i cassoni mortuari dei santi. D’un tratto abbandonai la fondamenta e cominciai a saltare come un ranocchio da un cassone all’altro; così per dieci minuti, finché non avvistai la fine del canale e l’inizio del mare. Sulla punta estrema della fondamenta, si ergeva un edificio cavo ricamato di portici, un loggiato mosso da tendaggi purpurei che eroicamente sfidavano i venti del mare aperto. Mi svegliai mentre cercavo di raggiungerlo.

 

Questo il sogno, ma la realtà è un’altra. Per antiche ragioni che talvolta mi portano in questi luoghi, mi sveglio in una casa tra i vigneti del Pratàlea, sui Colli Euganei. E’ l’alba, i monaci dell’abbazia di Praglia recitano le Lodi. I colli del Veneto, dolci e temperati, i colli dei cimiteri di guerra e delle trattorie che non sanno mostrarsialla moda: un degno preludio a Venezia, la cui vanità è una favola per bocche buone. Venezia non differisce poi tanto dalle altre città del Veneto. Se le regioni d’Italia fossero sorelle sedute lungo un divano, en parade dinanzi a un possibile pretendente, il Veneto sarebbe la sorella più mite, seduta all’estrema destra; senza sprezzo ma senza interesse guarderebbe oltre la finestra, a est. Il Friuli-Venezia Giulia s’incarnerebbe invece nella sorella maschia retta in piedi dietro il divano, con la mano poggiata alla spalliera.

 

Alle sette e mezzo del mattino, quando i clienti sono tre o quattro, gli uomini del pesce cantano, senza mai concludere le strofe delle canzoni

Sul treno regionale che mi porta a Venezia, tanti studenti di Architettura, di Economia e una famiglia slovena. Sono le sette quando scendo i gradini della Stazione di Santa Lucia, arrivo puntuale all’appuntamento con mia madre; mi aspetta di fronte ai loggiati che vidi in sogno. Tendaggi purpurei, porpora reale, quella secreta dal murice amato dai Fenici, mollusco che sui banchi di questo mercato prende nome di garuzolo.

  

Gli uomini della Pescarìa di Rialto sono molto eleganti. Gli uomini più degni che conosco tra Venezia, Padova e Treviso lavorano con le carni: macellai, salumieri e pescivendoli, spesso devoti di un santo. I mercanti del pesce si muovono con delicatezza e mentre spiegano la differenza tra una seppia mediterranea e una francese, guardano negli occhi per assicurarsi di molte cose. Alle sette e mezzo del mattino, quando i clienti sono tre o quattro, gli uomini del pesce cantano, senza mai concludere alcuna strofa delle proprie canzoni. Mia madre e io beviamo un caffè, ascoltandoli. Una voce baritonale: “Oh cuore…”. Fine. Un basso: “Tu, solamente tu…”. Lei? Solamente lei? La voce di un ragazzo: “Amor amor ti canterà”. Cosa mi canterai? I mercanti del pesce non finiscono mai le strofe, e certe volte neppure i versi. Sotto il loggiato, tra i loro bancali, intonano solo frammenti. Pensiamo che s’interrompano per pudore, perché non c’è nessuna ragazza ad accogliere i loro canti d’amore ma solo qualche vecchina mattiniera, e perché di fronte a loro giacciono migliaia di cadaveri; anche se la carne del pesce non sembra mai morire, forse qui non è lecito cantare l’amore.

 

Gli uomini del pesce mantengono la propria pacatezza da secoli; erano riservati anche negli anni Cinquanta, leggo in un numero del 1951 dedicato a Venezia nella mia raccolta di Epoca. Un trafiletto titolato “Confessionale in Pescheria” recita: “Sembra, questa dei pescivendoli lagunari, una setta, un club di gentiluomini amanti del pesce i quali si scambino sommessamente, riservatamente, nella loro agorà sul Grancanale, giudizi e impressioni sull’oggetto della loro passione. […] Un brulichio affaccendato ma senza suoni, senza clamore, come di strane creature immerse in un acquario”.

 

All’alba il mercato delle erbe e quello del pesce s’intrecciano, di fianco ai tonni passa un bancale di fragole e uno di castraure, i carciofi che fanno dell’Isola di Sant’Erasmo il bouquet violetto della Laguna. Un vecchio trasporta con notevole equilibrio alcuni fondi di carciofo a bagno nell’acqua e non s’accorge che due passeri si stanno abbeverando dalle sue vaschette. I passerotti, le seeghette, il cui genocidio a opera dei gabbiani era stato già attestato anni fa, sono a poco a poco risorti con mio grande sollievo tra le cassette della frutta, dove gli striduli assassini non possono raggiungerli. Ecco che arriva un minuscolo cane, un brabantino zoppo che saltella qua e là con la pretesa di fare pipì, un pescivendolo lo spaventa con la pompa dell’acqua. Nel loggiato più interno, due uomini maestosi cinti da lunghi grembiuli, tessono un’accesa discussione sui moscardini, mentre i loro compagni terminano di svuotare la cassa di mormore, lo striato pesce che nasce maschio e muore femmina. Questo vediamo mia madre e io.

 

Al mercato ittico diventiamo esploratori del mare, la nostra unica chance per avvinarci all'anima di Jacques Cousteau

C’è tutta un’art décoratif nel disporre il pesce a ventaglio, una danza che occupa gli uomini al sorgere del sole. Ma forse è sbagliato raccontare la Pescaria come fosse una chinoiserie del Tiepoletto, e vedere qui e là un fiocco, un riccio, un parasole, dove ci sono branzini, tonni e moèche. Dunque abbia inizio il ciclo della vita; racconterò ora di chi lotta. I primi a rifiutare la morte sono i gò. Pesci di Laguna che riluttano il mare, antichi strumenti di baratto e unica fonte di nutrimento nella Venezia povera di un tempo, alcuni gò riescono a saltare fuori dalla cassetta ove i loro fratelli giacciono già spenti. Assomigliano a lumaconi colorati d’alghe e fango, la mandibola sporge. Si suole dire “infilar la man nel buso del gò” perché il pescatore visita il gò mentre questi riposa nel suo buso fangoso, ma è anche detto ‘pesce del principiante’ perché, non essendo molto sveglio, il gò abbocca sempre, anche con canna fissa. Per questo, che sia proprio il modesto gò a voler vivere non stupisce; solo un pesce di mondo che conosce l’abisso può trovare accettabile l’idea della morte, l’innocente gò di Laguna chiede unicamente di tornare al suo caldo buso.

 

Mamma e io seguiamo la via crucis del gò fuggitivo che saltando si fa strada prima tra le seppie e poi tra i branzini finché cade a terra ove un gabbiano subito lo ghermisce. Anche le granseole stanno lottando, e schiumano bolle dagli orifizi. Ricordo che quando ero bambina, negli anni Novanta, c’era al Lido di Venezia chi riemergeva da una breve nuotata tenendo fermo il granchione gigante e per la gioia di tutti s’annunciava l’insalata di granseola; le bestie d’oggi arrivano invece dalla zona 27: Atlantico nord-orientale. Sono vivi anche gamberoni e gamberetti, gallinelle e garuzoli. Affiorano i ricordi; da piccola, proprio in Pescaria, chiedevo ai miei genitori di acquistare interi sacchetti di gamberi grigi vivi che poi correvo a buttare in canale; chissà che fine facevano, se riuscivano a ricrearsi una vita tra le lignee fondazioni dei palazzi veneziani… Sono vive anche le moeche, i morbidi verdi granchietti pescati dai moecanti nelle valli della Laguna, da Goro a Chioggia. Un mestiere a rischio, quello del moecante; la Laguna è fragilissima. Un vecchio, sconsolato pescatore mi raccontò che negli anni Quaranta tra le barene si poteva trovare qualsiasi tipo di pesce, persino qualche rarissimo spada impiantato nel fango.

Di pesci e molluschi veneti, Filippo De Pisis tutto sapeva; gallinelle, cefalotti, ostriche, canocchie, l’intera corte di pesci aveva confidato al pittore i propri squamosi segreti, specie quell’ingenuo del gò. Nelle nature morte di De Pisis, i pesci arrivano malmessi, seccati dal sole, mangiucchiati dal pittore, ischeletriti dalle sue pennellate. Il malizioso pittore pone sempre un pesce, o uno scampo, in primo piano, davanti alla marina. Tutto fa pensare al pesce spiaggiato, morto d’insolita vecchiaia, se non che sulla sabbia di fianco a lui v’è spesso un carciofo; e di fianco al carciofo un limone e, saltuariamente, anche dell’aglio. De Pisis intrecciava due generi, la natura morta e la marina, ponendo il pesce in un limbo: l’immobile cefalo di una vanitas o quello pronto a ributtarsi nella limacciosa pozza della vita?

 

Eccoli i signori pesci e le signore mollusche, in questo giorno d’aprile sul ghiaccio dei banconi – chi di loro è ancora vivo, s’accorge con terrore o sdegno d’esser posto di fianco al proprio predatore o alla propria preda. Rubati all’abisso e alla maretta, il predatore e l’eletta, il tonno e l’acciuga: sulla ghiacciaia dell’égalité, sviscerati testé.

 

Il pesce più carino è lo sfogetto, la mini-sogliola nostrana, piccola, cicciotta, con l’occhio rinsaccato nella carne e la pinna che denuncia la propria presenza con uno scuro ocello. Oggi gli sfogetti costano un euro in più dei sardoni e un euro in meno dei “molli”, che poi si direbbe “moli” anche se il nome scientifico è degno di un alchimista, Merlangiusmerlangus.

 

Alchemico quanto il merlangius è l’angolo della pulitura. Nel loggiato a ridosso del Canal Grande stanno due banchi ove le signore vanno a farsi pulire il pesce. I banchi sono formati da due tavole di marmo poste una a ridosso dell’altra; dietro ogni tavola, un uomo del pesce. Le tavole hanno nel mezzo un foro di aurea circonferenza da cui pendono due larghi sacconi per le scoasse; presentano inoltre fenditure laterali ove gli Apolli, i pulitori del pesce, posizionano i propri coltelli. Sul marmo si scorticano i pesci, e le loro budella finiscono nei fori. La perfetta simmetria tra i due bancali, la marmorea divisione tra mondo dei vivi e infero, abietto budello fanno di questa teatrino della pulitura una miniatura degna di Aurora Consurgens, il cui simmetrico ermafrodito fu messo da Roberto Calasso in copertina a “L’impuro folle”.

 

E' l'alba. Il mercato delle erbe e quello del pesce s'intrecciano, di fianco ai tonni passa un bancale di fragole e uno di castraure

La Pescheria è sacra; camminare tra il pesce è sacro; mangiarlo, unirlo alla propria carne, è sacro. E’ sacro persino il peocio, la cozza, che pure infesta gli scogli più zozzi e subito appare impuro; prima di giunger qui viene posto in grandi vasche a sputacchiare l’acqua cattiva succhiando quella buona: la purificazione, il battesimo del peocio, il più biblico tra i frutti di mare. L’occhio del pesce San Pietro, sgomento, antico, privo di verbo, ci riguarda; così come ci riguarda il banco su cui la caina di seppie innalza un monte viscido e sporco, le carni dell’una allacciate a quelle dell’altra quando già nell’abisso si mangiavano, tra grandi e piccine. Ieri giù, dove è nata la vita; oggi su, vicino a noi. Al mercato ittico diventiamo esploratori del mare, la nostra unica chance per avvinarci all’anima di Jacques Cousteau.

 

Mia madre e io acquistiamo per un’amica un chilo di folpetti da lessare e dei latti di seppia, che poi sarebbero le uova non fecondate; per noi un rombo e delle bevarasse per la pasta. Da piccola tra i miei sogni c’era quello di diventare caparozzolante, nome con cui in veneto s’indica il pescatore di vongole veraci; mi piace pescare dai fondali, immergere le mani nel fango, setacciare la sabbia e trovarvi cosette; la consideravo una variante lagunare e appetitosa dell’archeologia.

 

Eccola, la Pescarìa di Rialto, di fianco a sua sorella l’Erbarìa, e a tutti gli spettri di cui ancora si sentono aromi e olezzi: Beccarìa, Naranzerìa, Casarìa, la Ruga degli Spezieri, la Drapparìa… Si succedono i campi del commercio, uno di questi ospitava il mattatoio pubblico dove tra le carni delle bestie furono buttate quelle del doge Quarto Candiano e del suo figliolo innocente, i campi in cui arrivavano animali, frutti e uomini selvaggi che il Carpaccio si precipitava a ritrarre; campi di bische, orrori, amori e miracoli.

 

Così cantava nel 1442 Iacopo d’Albizotto Guidi: “E a voler seguir mia volontà/ Mi chonvien chapitare in su Rialto,/ Dov’è di merchatanti gran quantità./ Quinvi è un ponte non fatto di spalto,/ Ma di lengniame sì ben lavorato./ Chi non passa per quel ponte, fa un gran salto/ A voler valichar da l’altro lato”. E’ una canzone che ho trovato in un libro vecchissimo; l’Albizotto rimava che allontanandosi di pochi passi dal Ponte, si riducevano cavalieri, signori, marchesi e conti e cominciavano a palesarsi i tavoli dei giocatori di carte e gli avi dei nostri attuali uomini del pesce: “Sono e telaroli,/ Che vendon tele per tutti e merchati./ E po’ più holtre sono e funaroli,/ Che vendon tele e spagho di più sorte,/ E drieto a lloro sono e chaciaruoli./ E per che ‘l mio dire non ti paia forte,/ E v’è la pescheria tanto piena/ Di quantità di pesci d’ongni sorte”.

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