Enrico Robusti, “Pizzeria magna, magna Grecia”,

Odo padovani far festa

Matteo Righetto

A piazza delle Erbe c’è il mercato patavino per eccellenza, un luogo dove non si litiga perché si beve bene, dove si vorrebbe lavorare perfino di più e dove local e global funzionano insieme

Cosa chiedono i mercati, all’Italia, lo sappiamo da tempo: crescita, produttività, riforme strutturali, meno tasse sul lavoro, mercati aperti, concorrenza, ritocchi sull’Iva, manovre correttive, conti in regola, debito da ridurre, deficit da rispettare. Ma cosa chiedono gli altri mercati, quelli che troviamo nelle nostre città, alla politica, alla classe dirigente, all’opinione pubblica? Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori foglianti di andare a raccontare i grandi mercati italiani. Otto storie, otto città, un’altra idea di paese. Buon divertimento. 

 

Leggi i racconti precedenti dalle altre città:

 

Il mercato segreto di Firenze - di Claudio Giunta

Mangiare daino al Mercato di Mezzo a Bologna - di Camillo Langone

 


 

Se amo Padova da sempre è perché sono padovano, ma se la amerò per sempre è perché sono un goliarda padovano. Ricordo molto bene la prima parte della serata in cui entrai nell’Ordine Goliardico del Gattamelata, parecchi anni fa. Era il 30 ottobre del 1992 e il giorno seguente la Chiesa cattolica avrebbe ufficialmente riabilitato le tesi di Galileo Galilei, condannate nel lontano 1633. Avevo vent’anni ma da quel giorno la mia età sarebbe rimasta sempre la stessa, perché come recita uno dei più celebri canti universitari: “I goliardi hanno sempre vent’anni, anche quando ne hanno di più”. Iniziai a vivere un’esperienza unica e irripetibile, fatta di studio, ma anche di gioia, divertimento ed ebbrezza. Fatta di corsi, manuali e appelli d’esame, ma anche di straordinaria socialità, spirito di fratellanza e tradizione. Perché Goliardia è cultura e intelligenza, piaccia o no ai suoi detrattori benpensanti e ai loro pregiudizi perbenisti. E la cosa più interessante riguarda il fatto che attraverso quell’affascinante avventura cominciai a vedere e osservare Padova con occhi nuovi. Imparai a guardarla da altre angolazioni, sotto altri punti di vista. Con uno spirito diverso, soprattutto. Quella che era sempre stata la mia città, la città dove ero nato e cresciuto, la città che pure mi aveva dato tanto e che onestamente pensavo non potesse darmi di più, da quel momento mi apparve ancora più bella e culturalmente più ricca. In essa infatti imparai ben presto a scoprire una nuova anima, una nuova humanitas. Apparentemente godereccia e dionisiaca eppure così misteriosa e profondamente saggia. Erano i bei tempi in cui terminavamo le riunioni dell’Ordine a notte fonda, cantando sotto le stelle con una chitarra in mano e una bottiglia di vino da condividere con gli altri, seduti attorno alla fontana di Piazza delle Erbe o in Piazza dei Frutti. Erano le notti in cui tornavamo a casa alle prime luci dell’alba, quando i primi ambulanti arrivavano per darci il cambio, allestendo le loro opulente bancarelle di frutta e verdura mentre noi cantavamo il bellissimo pezzo del cantautore (e clerico vagante) Marco Giacomozzi che fa: “Sei Padova / sei splendida / sei vietata ai minori / sei la notte e i colori, i rumori festosi / dei mercati all’aperto...”. E proprio quei mercati all’aperto, insieme ai negozi sotto il Salone (come viene chiamato per sineddoche il Palazzo della Ragione) rimangono ancora oggi a distanza di anni, una delle cose più belle e sempre vive della mia città. Frequento molto spesso il centro storico, ma sono soprattutto questi tre luoghi quasi magici ad attirarmi quotidianamente per vari motivi. Il Salone e le sue due piazze, una posta a sud e una a nord. Mi attraggono certamente per la loro irrinunciabile centralità rispetto alla vita sociale e culturale padovana, ma soprattutto per la vitalità dei loro mercati e la qualità dei loro prodotti. Questi luoghi infatti sono “il mercato patavino” per eccellenza, hanno costituito e rappresentato per secoli un vero e proprio centro commerciale ante litteram e a tutt’oggi vi si respira un’aria di perfetta sintesi tra antichità e contemporaneità e di idillico connubio tra local e global. E così in Piazza delle Erbe ogni giorno convivono decine e decine di ambulanti chiassosi, sia veneti che immigrati, i quali riempiono questo incantevole angolo di città di simpatia e colore come in un affresco contemporaneo (Padova è capitale indiscussa della pittura parietale del Trecento). Tra i primi ci sono i nostrani Bepi, Toni, Lino; tra i secondi invece, che provengono soprattutto dal Bangladesh o dal Pakistan, i nomi che circolano di più sono Sing, Malal, Amil.

 

Una nuova humanitas apparentemente godereccia e dionisiaca ma allo stesso tempo anche misteriosa e saggia

“Fare mercato è bellissimo nonostante la fatica di lavorare sodo e svegliarsi prima dell’alba”, dicono all’unisono gli uni e gli altri, che spesso fingono di litigare fra loro salvo poi finire la mattinata insieme, a bere ombre di Sauvignon sotto il Salone. Il loro comune slogan è: “Se chiudono i mercati all’aperto, muoiono le città”, ed è evidente che hanno tutte le ragioni del mondo, soprattutto se parliamo di una piazza come quella in questione, che vanta una tradizione e una cultura plurisecolari oltre a una incredibile e incessante capacità di rinnovarsi in continuazione riproponendosi come qualcosa di organico alla città e irrinunciabile per i suoi numerosi turisti, nonostante una crisi economica e sociale che sembrano fare di tutto per falcidiare i consumi. Invece no, le attività commerciali e gli affari che si concludono in Piazza delle Erbe e sotto il magnifico Salone (che fu antica sede dei tribunali cittadini, eretto a partire dal 1218 e sopraelevato nel 1306 da Giovanni degli Eremitani che gli diede la caratteristica copertura a forma di carena di nave rovesciata), sono in costante crescita. E ogni giorno, ma sarebbe meglio dire ogni mattina, sono migliaia le persone che lo frequentano e si disperdono fra i rivoli dei banchi di frutta e verdura posizionati ordinatamente sulla piazza e tra gli affascinanti negozi incastonati nei passaggi e nelle gallerie sotto il Salone. Nonostante i professionisti del disfattismo, qui regna il buonumore dappertutto, profuso tra osterie, chiacchiere in dialetto, amicizie tra uomini nati ai lati opposti del mondo ma uniti dalla passione per questo luogo e per il proprio lavoro, spuncetti fatti e serviti con uova e acciughe, tramezzini e “ombre” bianche e rosse, come i colori della città e della sua gloriosa squadra di calcio che ancora vive nella memoria di Nereo Rocco, il mister più rustico della storia del football, uno che diceva: “Tuto quelo che se move su l’erba, dàghe. Se la ze la bala, pasiensa!”

 

Passeggio tra le bancarelle e nella mia testa suona e risuona sempre la stessa canzone goliardica, col suo giro di do semplice e romantico: “… Seguo il passo nei bar / dei clienti più in bilico / dolce amante mia, cara amica / paga il debito”.

 

E’ così lo spirito dei padovani, ed è lo stesso spirito di questi mercati, da una parte e dall’altra del banco. Ottimismo, ironia, gioia di vivere, speranza per il futuro, anche se il futuro chissà cosa ci riserva. Certo, qualcosa che potrebbe essere migliorato c’è, soprattutto dopo che negli ultimissimi anni l’amministrazione ha reso più chiusa culturalmente e più retrograda una città votata per sua natura al cosmopolitismo e all’universalismo, ma sono temporanei incidenti di percorso in una storia millenaria di apertura e dinamismo. Come dinamico è il banco di eccellenze gastronomiche di Francesco Marcolin, sotto il Salone.

 

“Qui”, mi dice con orgoglio il giovane titolare, “c’è il meglio del baccalà proveniente dalle isole Lofoten – vero fiore all’occhiello di questa antica bottega – offerto in tutte le sue varianti; poi la migliore selezione nazionale di formaggi caprini e molte altre cose”.

 

Osservando e annusando quelle che secondo lui sono le molte altre cose, vengo stuzzicato da una golosità irresistibile e gli chiedo informazioni su un formaggio in particolare.

 

“Montecapra selezionatissimo, di una vallata dove si possono contare più bestie che cristiani!”, dice con l’entusiasmo di chi sull’altare afferma: “Sì, lo voglio!”.

 

“Posso assaggiare?”.

  

“Anca massa!”.

 

“Ottimo”, dico dopo averlo degustato, “E come vanno gli affari?”.

 

“Molto bene. Certo, i nostri prodotti hanno costi superiori alla media per via della qualità, ma i clienti non mancano, anzi... solo che bisognerebbe abbassare le tasse, ostrega!”.

 

"Signora, cosa le piace di questa piazza, di questo mercato?". "La merce è sempre fresca, di qualità, e il prezzo è onesto"

Sorridiamo entrambi, lo saluto ed esco dalla bottega di Marcolin con un entusiasmo nuovo, che non mi aspettavo. Vuoi vedere che in fondo in questo paese le cose non vanno tutte a ramengo come ci dicono? Giro l’angolo e, sempre rimanendo sotto il Salone, decido di andare a bere un’ombra all’enoteca Il Tira Bouchon, storica cantina che è anche luogo di ritrovo di universitari e artisti, oltre che quintessenza dell’integrazione culturale riuscita alla perfezione visto che, pur essendo patavinissimo, il locale è gestito da Mirco e Natasha, lui francese e lei russa, una coppia formidabile (marito e moglie) sempre col sorriso sulle labbra e l’ironia come impareggiabili viatici di relax indotto da polifenoli.

 

“Certo che si lavora, siamo veneti!”, esclama Natasha, donna affascinante e gioiosa, “Abbiamo solo due problemi: ci vorrebbero più parcheggi vicino alle piazze e ci vorrebbe la liberalizzazione degli orari. Non è possibile che un’enoteca storica e famosa come la nostra sia costretta a chiudere la saracinesca alle ventuno, ti rendi conto?”.

 

Infatti non mi rendo conto per niente. Come è possibile che dei regolamenti assurdi impediscano a questi esercenti di tenere aperta l’attività oltre un certo orario?

 

“E’ un cazzata!” esclama Mirco con accento franco-veneto, “Noi vogliamo lavorare di più!”.

 

Capito? Le cose vanno bene e oltretutto loro vorrebbero lavorare di più. Ah, quant’è bello il mio Veneto, e quant’è bella questa Padova moderata, produttiva e lungimirante, la mia città ricca di cultura, storia, tradizione, abnegazione per il lavoro e visione del futuro nonostante l’ex sindaco e i suoi populismi retrò.

 

“Sei Padova / una città catastrofica / una gita turistica, un caffè sulla strada / cinque minuti e riparto…”. E che bella questa canzone di Giacomozzi, “Cattolica / tu vuoi bene alla messa / e poi al parroco buono / alla signora di sopra / che parla il dialetto…”.

 

Nonostante i professionisti del disfattismo, qui regna il buonumore dappertutto, tra osterie e chiacchiere in dialetto

Qualcuno, come Gino Salmaso, che ha un banco di verdure a chilometro zero, in verità di qualcosa si lamenta. Lo fa parlando della concorrenza sleale di quelli arrivati dal Bangladesh, che ora posseggono più della metà delle bancarelle in piazza e sfruttano i loro connazionali pagandoli pochi euro al giorno, ma c’è anche chi la pensa diversamente, come Bepi Salvagno, per il quale la bancarella è lo sbocco naturale per molti stranieri, purché lavorino sodo e siano brave persone. E quelli che lavorano in Piazza delle Erbe sono tutte brave persone, magari talvolta grottesche come spesso sono i venditori ambulanti, ma pur sempre brave persone. Qui attriti non ve ne sono mai stati, problemi di convivenza fra lavoratori neppure e tanto meno incidenti o conflitti, tutt’al più frequenti occasioni per schiamazzare un po’ di folklore post goldoniano, come quando, in mia presenza, Gino Scalabrin ha gridato qualche verbo colorito nei confronti del suo dirimpettaio pakistano Besha, al quale, tra le altre cose, ha urlato forte: “Ridi moro, che ‘desso ‘riva el biondo da l’America e dopo no te ridarè più!”. Cose così a bizzeffe, ma niente più, e i primi a riderci su sono proprio i lavoratori immigrati, i quali in realtà sanno di poter contare su un forte spirito di accoglienza e sano corporativismo. Eppoi, onestamente, che ne sarebbe dei nostri bei mercati all’aperto senza questo nuovo impulso che viene da lontano? Si pensi a quando l’imperatore Giustiniano volle rivitalizzare l’economia di Bisanzio e la sua tenacia fu ricompensata dai due monaci i quali, arrivati a Costantinopoli con le uova del baco, consentirono all’impero bizantino di dare inizio alla agognata industria della seta.

 

“Sei Padova…”, canta Marco Giacomozzi, “Nelle chiese e nei bar / tu ti vendi ai signori / adorabili, rispettabili / nuovi amori”, e io canto insieme a lui, gironzolando di qua e di là, attraversando questo mercato coi suoi clienti, gente comune: borghesi, pensionati, professionisti, professori, studenti universitari, ragazzi che hanno marinato la scuola, nonni, nipoti e una manciata di immancabili personaggi pittoreschi. E poi tante giovani donne, eleganti e sicure di sé come le donne venete sanno essere. Incontro la signora Gianna davanti al banco di frutta di Sandro.

 

“Signora, cosa le piace di questa piazza, di questo mercato?”, le chiedo.

 

“La merce è sempre fresca, di qualità, e il prezzo è onesto”.

 

Vuoi vedere che in fondo le cose non vanno tutte a ramengo come ci dicono? Basterebbero un po' di liberalizzazioni, anche sugli orari

Mentre Giacomozzi continua a riecheggiarmi nelle orecchie con la sua chitarra: “Sei buona / come un’amante fedele / provinciale e per bene, amore e catene /politica e sport / sei cinica / non te ne frega un granché / di chi resta e chi parte / di chi poi se ne pente / e ritorna da te…”.

  

E anche Francesco è d’accordo. Francesco è uno studente universitario fuori sede, è di Piacenza, ma studia e vive nella città del Santo da tre anni.

  

“Faccio Ingegneria”, dice, “E la verdura, ma tutta la spesa in generale la faccio sempre qui”.

 

“Perché?”.

 

“La roba è buona, e costa poco. Paradossalmente costa meno che in molti altri supermercati”.

 

“Ed è freschissima!”, puntualizza Bepi, titolare del banco dove la frutta è disposta meticolosamente a seconda del colore: dal tono più caldo a quello più freddo.

 

E che il mercato sia un luogo di forte identità lo raccontano anche gli altri ambulanti che frequentano questo posto. Certo, con i tempi che corrono, con i comuni che hanno aumentato la Cosap (tassa di occupazione del suolo pubblico), per i grandi banchi il problema di stare nei costi c’è. Eppure, nonostante tutto, ma proprio tutto, il mercato attorno al Palazzo della Ragione non mostra alcuna flessione, alcun cedimento, coi suoi macellai, fruttivendoli, pescivendoli, impastatori, pasticceri, calzolai, osti, rigattieri, formaggiari e chi più ne ha più ne metta. La gente ci va, sorride, acquista, mangia e beve bene, anche solo per uno spuncetto o un aperitivo in buona compagnia, alla faccia della crisi, alla faccia dei dati Istat e dei mercati finanziari, alla faccia dei gufi secondo i quali tutto flette, tutto cede, tutto crolla. Ma quale pessimismo, vorrei che vedeste i colori, il movimento, e che suoni di gioia ed esuberanza risuonano da queste parti, ogni mattina. E allora: gaudeamus igitur!

 

“Sei splendida / sei vietata ai minori / sei la notte e i colori, i rumori festosi / dei mercati all’aperto…”.

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