Una sala del Teatro Valle (foto LaPresse)

Aridaje (col Valle)

Marianna Rizzini
Il teatro ex occupato e non riaperto torna a essere “buccia di banana”. Un'intervista del regista Gabriele Lavia a Emilia Costantini, sul Corriere della Sera riporta a galla una storia che sembrava morta e sepolta. Un dossier scomodo sulla scrivania di due sindaci.

Pareva storia sepolta nella notte dei tempi. E invece, nei giorni in cui gli occhi del mondo erano puntati altrove (vedi alla voce Donald Trump), nelle vie del centro di Roma si consumava l’atto fuori tempo massimo dell’antico dramma che va sotto il nome di “Teatro Valle” (prima occupato, poi non più occupato – tuttavia non ancora riaperto). Ed ecco che, la mattina in cui il mondo si svegliava con Trump eletto a sorpresa a presidente degli Stati Uniti, e mentre nei bar, tra cornetto e cappuccino, i sonnolenti spettatori di maratone televisive notturne fissavano i maxischermi in cerca di conferme, la questione del Valle tornava a galla, tramite intervista del regista Gabriele Lavia a Emilia Costantini, sul Corriere della Sera locale: “Credo sia un dovere morale della politica ristrutturarlo e riaprirlo alla città”. Lavia era direttore dello Stabile ai tempi dell’occupazione da lui chiamata, più volte, “vicenda vergognosa”, e oggi rievocata con parole in linea con quella definizione: “…vedevo negli occhi degli occupanti “la rabbia, quella che si manifesta negli stati di tensione. Occupare un teatro così importante non è facile e, tra loro, non scorgevo nessuno che fosse in grado di dirigerlo: se tra gli occupanti ci fosse stato uno Strehler o un Paolo Grassi, allora sì…Invece ebbi la sensazione che la storia non potesse andare a buon fine…”. Pareva finita nell’estate del 2014, la vicenda Valle (fine dell’occupazione e riconsegna al Comune – che nel frattempo aveva pagato le bollette agli autodenominatisi “comunardi”). 

 

E però, nel novembre 2016, si è ancora al punto zero (il regista – che come approdo “più logico” vedrebbe “lo Stabile capitolino” – chiede alla sindaca Virginia Raggi di prendere “una decisione definitiva, veloce e risolutiva”, pena la trasformazione della questione Valle in “buccia di banana”). Chissà se Raggi, al momento alle prese con il problema delle slot machine (“Roma non è Las Vegas”, è lo slogan), darà retta al Lavia-Cassandra oppure no. Certo è che il Valle non riaperto resta lì come simbolo di una ennesima “guerra di mondi” tra establishment (vero o presunto) e aggregazioni anti establishment, tra un “noi” e un “voi” di volta in volta vestito di significati diversi. Al Valle occupato nel 2011, infatti, si dava la patente di ultimo avamposto di libertà prima dell’avvento dei misteriosi usurpatori pronti a svendersi al Dio Mercato (“la paninoteca nel foyer!, la paninoteca nel foyer!”, si vociferava dentro e fuori dal web in un’estate di paura e delirio a due passi da Sant’Eustachio, senza preoccuparsi dell’effettiva rispondenza del timore – o diceria – alla realtà). 

 

Poi vennero i giorni del Benecomunismo applicato, con lezioni professorali del giro “tà-tà” sul “teatro partecipato” (Stefano Rodotà, Ugo Mattei). Infine, ci fu la breve stagione del Valle Occupato International, con incursione pre-Europee di Alexis Tsipras (rigorosamente in lingua originale) e premi artistici “off” elargiti da nobili europei. Ma quando arrivò la fine apparente – ridateci le chiavi entro il 31 luglio 2014, avevano fatto sapere dal Campidoglio di Ignazio Marino – gli occupanti avevano lanciato l’“irresistibile resistenza”: una notte bianca lunga dieci giorni per “forzare il tempo” fino a “inventarlo” oltre il 31 luglio. Perché non un 32 luglio?, si disse, anche se il Comune, attraverso il mediatore e presidente del Teatro di Roma Marino Sinibaldi, aveva concesso “riconoscimento” all’esperienza occupata e aveva promesso, pur di riportare il tutto nella “legalità”, di mettere il Valle sotto la “gestione pubblica” del Teatro di Roma, garantendo una “cessione di sovranità” in direzione del “teatro partecipato”. Troppo? Troppo poco? E se il Valle occupato aveva resistito a quattro cambi di governo (da Berlusconi a Monti a Letta a Renzi), il Valle non occupato e non riaperto si è già riproposto come dossier scomodo sulla scrivania di due sindaci (prossime puntate seguiranno).

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.