Totò Riina al Maxiprocesso (foto LaPresse)

L'inutile caccia ai presunti segreti di Riina, garanzia scontata di tante carriere

Massimo Bordin

La vita del Capo dei capi è stata la parabola di uno sconfitto, feroce, effimero trionfatore ma alla fine sconfitto

“Si è portato nella tomba i suoi segreti” è frase che non andrebbe mai scritta tanto è banale. Basta pensare, un attimo prima di cedere alla retorica, a come la morte chiuda ogni comunicazione, ogni speranza. Vale per i capi della mafia come per tutti. Ma tutti lasciano una traccia, un segno e su tutti è possibile tracciare un percorso, tirare un bilancio che sarà comunque la base di un giudizio storico. Perché non dovrebbe valere per un grande criminale lo stesso metro di giudizio che si usa per un grande politico o per un grande imprenditore? Se si applicasse a Totò Riina, un criterio del genere non potrebbe che portare a un bilancio fallimentare. Ha scalato il vertice della più grande e temuta organizzazione criminale del suo tempo per portarla vicino alla dissoluzione. Ha costruito, col sangue dei rivali, una rete di fedelissimi che sono tutti ormai in carcere. Alle difficoltà di un mondo che toglieva le rendite di posizione a tutte le grandi potenze, comprese quelle criminali, ha risposto con una strategia dissennata che lo ha portato in carcere per l’ultimo quarto di secolo della sua vita.

 

Nella tomba si sarà portato sicuramente segreti ma soprattutto rimpianto e rammarico.

 

La sua vita è stata la parabola di uno sconfitto, feroce, effimero trionfatore ma alla fine sconfitto. Neanche tanto alla fine, per meglio dire, perché 25 anni, passati in carcere prima di morire, non sono un battito di ciglia, né le ultime stragi efferate, seguite alla sua cattura, sono servite a qualcosa se non a portare in carcere e poi all’ergastolo i suoi complici più fedeli. Sotto Riina “Cosa nostra” perde la sostanziale impunità che durava da due secoli. Tutto questo è di palmare evidenza. Nel frattempo, anche questo è innegabile, altre mafie sono cresciute, se non intorno alle pompe di benzina di Roma nord, sicuramente in Calabria e nel casertano ma qualcuno non rinuncia a celebrare la grandezza di Riina anche dopo la sua morte. “Si è portato i suoi segreti nella tomba” è subito divenuto il mantra proposto da molti giornalisti e alcuni magistrati. Segreti pesanti, indicibili, per usare un aggettivo caro al dottore Scarpinato. Una lettura di questo genere trasforma la parabola di Riina, lo risolleva a vincitore, perpetua la potenza di Cosa nostra trasformandone il ridimensionamento in “sommersione”. Un fenomeno del genere non avviene solo per povertà intellettuale, sudditanza al luogo comune, pigrizia burocratica. Ovviamente c’è anche questo ma l’utilizzazione dello schema basato sui misteri di Riina non garantisce solo carriere professionali e parlamentari, ha un suo dinamismo nel gioco politico. Finisce per velare nell’ombra del sospetto vicende non solo spiegabili ma spiegate e costruire così un sistema in cui tutto viene perennemente rimesso in discussione per essere utilizzato contro il nemico politico del momento. Non si tratta di un danno collaterale ma del centro del problema. Leggere Leonardo Sciascia aiuta molto a capire.

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