LaPresse/Vincenzo Livieri

Le mezze verità di Di Matteo

Massimo Bordin

Nel suo intervento in commissione antimafia il pm ha replicato alle critiche sulla conduzione delle indagini e dei processi sulla strage di via D’Amelio

Della audizione ieri in commissione antimafia del dottore Antonino Di Matteo si sono potuti sentire solo brandelli. Una défaillance del sistema audiovideo è la causa del problema ma non bisogna imbastirci dietrologie. Il problema non è nuovo e poi il più interessato alla pubblicità dell’evento era proprio Di Matteo che di fatto lo aveva convocato auto invitandosi. Il pm intendeva replicare tempestivamente e nella stessa sede alle critiche sulla conduzione delle indagini e dei processi sulla strage di via D’Amelio, espresse da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso, che lo aveva chiamato in causa. Di Matteo ha sostenuto che si vuole screditare il suo lavoro addebitandogli un ruolo nell’accreditamento del falso pentito Scarantino. “Non c’entro nulla”, ha sostenuto il pm, ricordando come fosse arrivato alla procura di Caltanissetta, come prima nomina da magistrato, nel settembre 1992, quando Scarantino viene arrestato sulla base di indagini ovviamente precedenti, né – ha proseguito – si è mai occupato del primo processo scaturito dalle deposizioni di Scarantino e quanto al secondo, su altri accusati dal falso pentito, non ne ha seguito le indagini. E’ tutto vero ma qui c’è un problema. Quest’ultimo processo lo vede come pm in dibattimento pronunciare una requisitoria, nel dicembre 1998, in cui spiega come il tentativo di ritrattare da parte di Scarantino sia un ulteriore elemento che avvalora le sue accuse e chiedere e ottenere la condanna degli accusati. Anche di quelli poi risultati innocenti.