Luciano Liggio (foto di Wikipedia)

L'interrogatorio dei capimafia

Massimo Bordin

Luciano Liggio, capostipite della dinastia corleonese, accettò addirittura un confronto in aula con Tommaso Buscetta

Un fatto almeno è certo. Con la scelta di chiedere di essere interrogato Totò Riina ufficializza la sua posizione di ex “capo dei capi”. Cosa poi dirà ai giudici e ai PM non è questione marginale ma nell’universo mafioso, dove ogni gesto ha un valore simbolico, il suo interrogatorio chiude formalmente, con anni di ritardo rispetto alla sostanza dell’evento, l’epoca dei “corleonesi”. Perché un capomafia si può sottoporre volontariamente ad un interrogatorio solo se sa di non esserlo più. Ci sono diversi precedenti. Il più clamoroso e interessante è quello di Luciano Liggio, capostipite della dinastia corleonese, che accettò addirittura un confronto in aula con Tommaso Buscetta. Lo sbugiardò ma per farlo dovette ammettere due verità per lui inammissibili: ‘cosa nostra’ esisteva davvero e lui, Liggio, ne era stato il capo. Il verbo al passato era il salvavita. Nessuno degli affiliati fece storie, Liggio continuò ad essere trattato con ogni riguardo ma era chiaro che non aveva più alcuna voce in capitolo. Fu comunque più spregiudicato di un altro capo che lo aveva preceduto e che i corleonesi non erano riusciti a uccidere. Tano Badalamenti, fuggito negli Usa finì arrestato e di fronte a chi lo interrogava adottò una linea mediana fra il silenzio sprezzante e l’ammissione del proprio ruolo. Ero uso stordire i federali con periodi ipotetici che si arrotolavano l’uno su l’altro senza dare modo di capire se dentro ci fosse davvero qualcosa. L’incipit era sempre lo stesso: “Se davvero esistesse un’organizzazione chiamata mafia e io ne fossi uno dei capi…”. Poi cominciava ad arrotolare periodi ipotetici. Morì in carcere.

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