(foto LaPresse)

Gianni Melluso e il triste apologo sulla giustizia italiana

Massimo Bordin

Forse qualche lettore ricorda Gianni Melluso, uno degli accusatori di Enzo Tortora. Si aggiunse al coro dopo che Tortora era stato arrestato e lo accusò di avere personalmente spacciato droga

Forse qualche lettore ricorda Gianni Melluso, uno degli accusatori di Enzo Tortora. Si aggiunse al coro dopo che Tortora era stato arrestato e lo accusò di avere personalmente spacciato droga. Era allora un piccolo delinquente, siciliano trapiantato a Milano, dove commise diversi reati che lo portarono in galera senza che avesse raggiunto nemmeno una qualche caratura nel mondo criminale dove lo chiamavano “Gianni cha-cha-cha”. Con Tortora fiutò l’occasione di emergere, uscire dall’anonimato. Alcuni magistrati napoletani, meno accorti dei malavitosi milanesi, lo presero sul serio e credettero alle sue accuse. I giornalisti di tutta Italia ne fecero un eroe e gli cambiarono il soprannome. Diventò “Gianni il bello”, come un monarca medievale. Poi siccome c’è un giudice anche a Napoli, tutto finì. Melluso continuò a entrare e uscire dal carcere. Ora non ne uscirà più, dopo che la corte di assise di Trapani, come informa il Corriere del Mezzogiorno – rilanciato in rete da Frank Cimini cui nulla sfugge – lo ha condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di una povera donna, uccisa e gettata in un pozzo. L’aspetto singolare e terribile della vicenda è che la condanna si fonda sulla accusa di un suo compagno di detenzione, esecutore materiale del delitto. Si può anche pensare che magari Melluso sia vittima di una accusa falsa e interessata, e ritenere l’ergastolo una pena incivile. A maggior ragione non si può evitare di riflettere su come questa notizia sia un triste apologo sulla giustizia italiana, oltre che su “Gianni cha-cha-cha" e i suoi antichi sostenitori, in toga e in video.

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