manifestazione Non Una Di Meno a Milano (foto LaPresse)

A forza di prendercela con il patriarcato dimentichiamo le violenze sugli uomini

Simonetta Sciandivasci

I diritti femminili hanno imbavagliato quelli maschili?

Non se n’è accorto nessuno, naturalmente, ma il 19 novembre scorso, come accade da qualche anno a questa parte (quasi un ventennio nel resto del mondo, meno di un lustro in Italia), si è celebrata la Giornata mondiale dell’Uomo. Fa ridere, vero? Immaginiamo parate di invasati maschilisti, gare di rutti, comizi sull’importanza di “adorare il cazzo” come Tom Cruise in “Magnolia”, celebrazioni clownesche di orgoglio virile. Oppure fa incazzare. Ieri, sul Corriere, si dava notizia, in vista della giornata mondiale contro la violenza sulle donne di domani, indetta da Non Una di Meno, dei risultati dell’ultima indagine Ipsos per WeWorld: se una donna tradisce, è normale che un uomo diventi violento (16 per cento degli intervistati); se una ragazza circola in abiti succinti, deve aspettarsi l’aggressione (26 per cento). Secondo le stime dell’Onu, almeno una donna su tre ha subito una qualche forma di violenza.

  

Il Piano elaborato da Non Una di Meno per debellare tutto questo si apre così: “La violenza maschile è sistemica ed è espressione diretta dell’oppressione che risponde al nome di patriarcato, sistema di potere maschile”. Come si può celebrare l’uomo, se il maschile fonda e rende cronica la discriminazione femminile? Come si può indire una giornata che ne esplori la condizione, se quella condizione è la matrice di un assoggettamento? Forse, è stata la difficoltà di rispondere a queste domande da un punto d’equilibrio che sia equidistante dall’irrisione o dall’ira che le sole parole “movimento per i diritti maschili” suscitano, a offrire ragion d’essere a quel movimento.

  

Diversamente da quello che l’immaginario ci sollecita, gli attivisti per i diritti maschili non sono né apologeti dello stupro, né misogini nostalgici del mondo pre-suffragista. Sono uomini che non hanno trovato supporto e tutela rispetto a un numero crescente di problemi che ha una specificità connessa al maschile. Lo schema lo abbiamo appreso nelle ultime settimane: donne vittime da una parte, uomini orchi dall’altra. Che diritti può mai vantare un mostro? Il 19 novembre, Cassie Jay, documentarista, ha scritto su Facebook che trovava incredibile la prescrizione “esprimete i vostri sentimenti per liberarvi da una mascolinità tossica”, indirizzata agli uomini dai pochi che si sono espressi in occasione della Giornata: “Cosa accadrebbe se le donne si sentissero dire che, per risolvere le disuguaglianze e i problemi che le affliggono, dovrebbero liberare l’emotività e ripulirsi da una femminilità tossica?”.

   

Jay, femminista, ha girato documentari su diritti omosessuali e nuove famiglie. Nel 2015 ha intercettato gli MRA (men’s rights activist) mentre faceva delle ricerche sulla cultura dello stupro. Ha incontrato gli attivisti e i loro ispiratori, ha filmato i loro dibattiti pubblici e i boicottaggi, piuttosto violenti, delle femministe ai loro danni. Quando il documentario ha cominciato a circolare, è diventata una strega, una stronza, una nemica delle donne, una voce da intimidire e zittire. Ora tiene speech e cerca di dimostrare che, se pure ammettiamo che le redini del mondo sono patriarcali, per sbrigliarle è necessario porsi al di fuori della contrapposizione uomo-donna. E’ necessario comprendere che la guerra tra i sessi è una guerra tra dominati che sta assumendo la forma di un conflitto in cui non si vince la parificazione, ma la sopraffazione, il diritto a usucapire lo statuto di vittima e le tutele e i bisogni che ne derivano.

      

Jay è incappata nel movimento MRA quando ha letto di Paul Elam, accusato di aver scritto un elogio dello stupro in un articolo che proponeva di nominare il mese di “picchia una stronza violenta”. In verità, si trattava di una risposta provocatoria a un pezzo, pubblicato da Jezebel, portale femminista, intitolato “Hai mai picchiato il tuo fidanzato? Noi sì!”, che raccontava con soddisfazione di uno studio secondo il quale il 70 per cento delle violenze domestiche venivano perpetrate da donne. Femministe ed MRA si combattono con botta e risposta spesso calunniosi, violenti, ciechi. Anche per questo, Jay si è tirata fuori da qualsiasi militanza, ma il dubbio atroce che l’ha spinta a girare quel documentario, ovvero se i diritti femminili abbiano imbavagliato quelli maschili, se sarà sempre impossibile alleare donne e uomini in una lotta universale contro la disparità, sembra diventato lo spartiacque del nostro tempo.

        

Qualche dato sulle emergenze maschili: in Usa, esistono più di 2.000 centri anti-violenza: solo uno accoglie gli uomini (uno anche in Italia, sebbene sia sempre più acquisito che la violenza domestica non è solo un problema di genere, si legga “50 sfumature di violenza” di Barbara Benedettelli); il 93 per cento dei morti sul lavoro, nel 2013, erano uomini (il patriarcato esige che le donne procreino e non lavorino o lavorino meno o sottopagate, ma esige pure che i maschi siano sacrificabili); la maggior parte dei suicidi li commettono gli uomini; i tribunali familiari non garantiscono alcuna tutela ai padri rispetto a frode di paternità e affido.

        

“Un movimento attento al linguaggio come quello femminista, non pensa alle implicazioni che ha chiamare la forza di tutte le oppressioni con una parola che significa uomini?”, osserva un’intervistata della Jay. Già.