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Cancellare la donna. Per non offendere i trans si dovrà parlare di persone incinte

Simonetta Sciandivasci

Gli effetti perversi della separazione tra gravidanza e maternità

La Convenzione sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, in vigore dal 1976, stabilisce al comma 5 dell’articolo 6 che “una sentenza capitale non può essere eseguita nei confronti di donne incinte”. Oggi, il governo inglese obietta che quel “donne incinte” è espressione discriminatoria – “esclude i transgender che hanno dato la vita” – e propone di sostituirla con “persone incinta”. Il Times riporta che in Gran Bretagna sono noti solo due casi di gravidanze transgender, cioè di uomini trans. I maschi trans nascono donne: possono rimanere incinti se nel processo di transizione non hanno eliminato utero e ovaie. Se state pensando alle foto di un uomo incinto, che qualche anno fa (2008) lasciarono di stucco mezzo mondo, avete centrato esempio: era Thomas Beatie, attualmente padre di tre figli, tutti partoriti da lui, essendo sua moglie eterosessuale ma sterile.

   

 

“Avrei potuto essere incinto”, titolò il Messaggero, qualche anno fa, raccontando la storia di un adulto inglese che, durante una visita medica, aveva scoperto di avere un utero: la natura include l’intersessualità e, quindi, spariglia il binarismo sessuale da molto prima dei movimenti lgbt, che proprio quest’argomento, tra molti altri, impugnano. “La scienza spesso comporta aggiustamenti tassonomici”, ha scritto Chiara Lalli nel suo pamphlet “Tutti pazzi per il gender” (Fandango, 2016). Teniamone conto. Si può dire che da qui derivi l’idea, con cui il governo inglese sostenta di fatto la sua proposta, che la gravidanza sia genderfree? No. “Questa non è inclusione. Questo è rendere le donne innominabili”, ha detto al Times Sarah Ditum, femminista inglese accusata di transfobia preterintenzionale per aver sempre battuto su due punti: il percorso di emancipazione dei trans sta procurando un conflitto tra trans e donne e una trascuratezza nelle tutele dovute alle donne e alle loro specificità. A proposito di tassonomia, Dithum condivide l’etichetta di “trans-exclusionary radical feminist” con Germaine Greer, che due settimane fa, quando è stato reso noto che nel prossimo censimento britannico non sarà più obbligatorio barrare la casella “maschio” o “femmina”, ha detto: “Continuiamo a sostenere che le donne hanno conquistato tutto quello che c’era da conquistare, ma non hanno conquistato neppure il diritto a esistere”. Non sapere più quante donne e quanti uomini vivono in un paese è un altro passo compiuto “a beneficio di persone intersex o non binarie”, che davanti a quelle due caselle si troverebbero evidentemente spiazzate da una scelta ritenuta irrilevante. Via le donne e via le madri.

 

Chiara Lalli ricorda che il femminismo radicale ha condiviso con la “ideologia del gender” l’idea che le differenze tra uomini e donne siano sovrastrutture e non dati naturali, dalla quale è derivata anche la distinzione tra maternità e suo istituto e quindi l’idea che la maternità non qualifica una donna, cioè che una donna non dev’essere per forza madre per ritenersi ed essere ritenuta una donna. In quale modo dividere gravidanza e maternità per ricavarne una libertà femminile (una libertà di scelta) sia diventato un disconoscimento di uno specifico femminile (e delle cure che richiede) è incomprensibile. “Una donna che neghi di essere madre perché non si sente pienamente tale, né vuole diventarlo, non potrà però negare di essere rimasta incinta e di avere partorito, che è il significato primario della parola madre», si legge nel libro “Fare un figlio per altri è giusto (falso!)” di Daniela Danna (Laterza, 2017), che spiega molto bene come la pratica dell’utero in affitto derivi proprio dalla cancellazione della madre. Quando l’eziologia non è chiara, capita che le conseguenze lo siano di più. Qualche settimana fa, Danna è stata ospite di Michela Murgia a “Chakra”, su Rai3, al posto di Luisa Muraro che aveva respinto l’invito per via della presenza di Nichi Vendola, padre di un bambino avuto all’estero grazie al ricorso alla GPA, secondo lei “in torto verso l’ordine simbolico materno”. Nulla di tutto questo turba le militanti di #fuckpatriarchy.