"Sento che è mia figlia". Il coraggio che manca dietro al successo delle reborn dolls

Simonetta Sciandivasci

Potere sembrare madri affranca dal doverlo essere?

Un poliziotto vede una bambina chiusa in una macchina, gli sembra svenuta, rompe il vetro del finestrino per soccorrerla, la prende e si trova tra le mani una bambola che assomiglia a una bambina in modo impressionante. Sembra viva. Non è un giocattolo: è una reborn doll. È successo, qualche anno fa, nel Queensland (Australia) e decine di altre volte negli Stati Uniti, dove le bambole rinate, da oggetto di collezione (macabro, ma c’è a chi piace) sono diventate, nell’ultimo decennio, figlie adottive; totem terapeutici per curare la depressione post partum o alleviare il dolore per la perdita di un figlio; oggetti di conforto per vecchietti soli (“li mantiene pacifici e silenziosi”, ha detto Ian James del Centro per la Salute degli anziani dell’ospedale di Newcastle).

  

Non sono disponibili in nessun negozio al mondo: gli artisti che le realizzano, riverniciando e rimodellando corpicini in vinile, le vendono sulle piattaforme online di e-commerce, a cifre variabili, ma sempre piuttosto elevate (il record è 22.600 dollari per Joelle, creata completamente a mano e senza calco, capelli di chissà chi – rooting si chiama la tecnica dell’impiantare capelli veri su un cranio di silicone -– e una lieve traccia di cordone ombelicale; a soli 1.650 dollari, invece, è stata battuta la reborn dolls del Royal Baby d’Inghilterra). Insieme a pannolino, abitino (“ha senso che le vestiamo con tanta cura, se poi i genitori le cambiano come vogliono?” chiede su Facebook un’artista di rd a un’altra, che le risponde “certo, è un loro diritto e io voglio comunque offrire un prodotto completo e perfetto”) e certificato di adozione, può completare l’acquisto il kit cardiaco per far battere il cuore alla bambola e aggiungere reality a realismo. “Quando la cullo, sento che è mia figlia”, dice Amanda alle telecamere del canadese Globe and Mail, che la intervista mentre stringe un fagottino con dentro il suo amore di plastica, seduta su un letto dove stazionano un gatto, un cane e altre sei dolls. Amanda ha già una figlia, Emma, che però “a un certo punto è cresciuta, lei invece resterà con me per sempre”. E sempre con la stessa espressione, la stessa stazza, lo stesso colorito, la stessa temperatura, senza mai sanguinare, parlare, piangere, farsela sotto, chiedere permesso, aiuto, soldi, un cane, un viaggio, un culo nuovo, senza mai scappare, senza mai dire “ti odio, mamma”.

 

Tra le storie che il blogger Vincenzo Maisto, infiltratosi nel gruppo segreto Facebook “Il mio bimbo speciale”, ha letto, c’è quella di una donna che ha riempito di Nutella il pannolino della sua bambola per andarla a cambiare al parco. Poter sembrare madri affranca dal doverlo essere, l’imbattuta pressione sociale denunciata la scorsa settimana, sul New York Times, da Anna Goldfarb, che ha raccontato a cosa viene costantemente sottoposta per avere trent’anni, un marito e nessuna intenzione di fare un figlio: le viene domandato perché. Una sevizia insostenibile. “Lo fanno perché non fare figli contraddice la loro visione del mondo”, scrive. Guardata da questa parte, una donna che alleva una bambola, è il sintomo perfetto di questo malanno socio-culturale. Di questa “pressione a far figli” che incuba il destino delle donne da sempre. Possiamo scegliere di crederci e fingere che a trasformare una bambola in una bambina sia stato un riflesso culturale e non siano stati, invece, l’espunzione della natura dalla generazione della vita, che da anni sventoliamo come auspicabile traguardo di civiltà; l’educazione all’amore di sé e per sé (quello che un figlio assorbe e che una bambola restituisce); l’aver trovato sempre, per ogni mancanza, limite, privazione, un succedaneo che ne allentasse artificialmente la morsa e ci evitasse di affrontarla col coraggio necessario.

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