“Cavalle” svedesi per la parità di genere

Un gruppo di femministe ha sfilato nel centro di Stoccolma, nitrendo e galoppando intorno ai monumenti equestri, per protestare contro il patriarcale patrimonio iconografico della città

Simonetta Sciandivasci

A Stoccolma non ci sono statue di donne a cavallo: solo tronfi patrioti maschi che sovrastano la città con il loro "sguardo maschile e obsoleto". Così la pensa la coreografa Anna Kallbad, la quale, insieme all'artista Helena Bystrom, ha coordinato, a fine maggio, un nutrito gruppo di attiviste nella "danza di galoppo femminista". La performance ha denunciato come sia stantio e patriarcale il patrimonio iconografico della città e quanto questo condizioni ancora il controllo dello spazio pubblico, demandato quasi esclusivamente ai maschi.

  

Le ragazze hanno sfilato nel centro della capitale svedese, nitrendo e galoppando intorno ai monumenti equestri, affiancandoli da perfette sculture viventi, in modo da ristabilire equità e dignità di genere. Alle fanciulline svenevoli e succinte raffigurate nelle piazze svedesi, secondo il dettame della soggezione patriarcale che vuole il maschio condottiero e la femmina massaia, s'è voluto così contrapporre una mandria di cavalle umane. Non amazzoni, non condottiere, non Giovanna d'Arco, ma cavalle. "Il cavallo è il simbolo del potere", ha detto Svenska Dagbladet, un altro coreografo implicato nell'impresa, spiegando il senso profondo che ha avuto invadere il centro di Stoccolma con decine di - come chiamarle? - destriere.

   

In verità, il cavallo è il simbolo della libertà. Un numero sterminato di proverbi contadini consiglia di tenere sotto stretta sorveglianza la moglie e il cavallo, in quanto creature indomite. Nelle statue equestri (non solo in quelle svedesi), il cavallo è domo ed è strumento di potere. Alla luce di questo, dal momento che le destriere di Stoccolma non erano cavallerizze, bensì, appunto, cavalle, la performance femminista non è stata nient'altro che una carnevalata che, come tutte le carnevalate, sovvertendo una sottomissione, per il tempo di una sfilata, finisce pure con l'ammetterla. 

  

Senza considerare che nel Nordeuropa esiste una relazione particolarmente felice tra donne ed equitazione: fu ai Giochi di Helsinki del 1952 che il dressage ammise per la prima volta anche la partecipazione femminile e fu una danese, Lis Hartel ad aggiudicarsi il podio, sebbene le sue gambe fossero paralizzate dalle ginocchia in giù per via di una poliomielite.

  

Non che i dettagli simbolici o l'aneddotica storica siano dirimenti, figuriamoci: non facciamoci condizionare da una perdonabile confusione. Non consentiamo che una svista svilisca la denuncia sacrosanta del sessismo più subdolo: quello preterintenzionale. È ora di smantellare l'impero maschilista e i suoi avamposti: via la letteratura maschile dalle università e per favore smettetela di pisciare in piedi (in Svezia, nel 2013, Viggo Hansen, consigliere della Contea di Sormland, propose l'obbligo per legge di sedersi sul water per gli uomini).

  

Non potendo (ancora?) abbattere le statue cittadine, come si fa alla fine di ogni dittatura, le femministe svedesi hanno scelto stavolta di raffigurare la riappropriazione femminile dello spazio pubblico, tema parecchio sentito nel paese, tanto che a marzo il ministro dell'ambiente, Karolina Skog aveva dichiarato che ridurre le automobili sarebbe stata una conquista femminista, dal momento che la maggior parte dei mezzi "è guidata da maschi che tolgono spazio alle donne".

  

La presenza massiccia di uomini alla guida è un chiaro segno della subdola ostilità che la società svedese riserva alle donne e getta una luce assai oscura sul primo paese al mondo ad accordare alle donne il diritto di voto (nel 1718, durante l'età della libertà svedese, anche se circoscritto alle sole cittadine contribuenti e nel 1919, con il varo del suffragio universale, convalidato alle elezioni del 1921); il primo governo femminista del mondo (questo rivendicò Stoccolma quando, nel 2014, il premier Stefan Lofven formò un governo di coalizione con il Partito socialdemocratico e i Verdi, guidati proprio dalla Lovin);  l'avanguardia europea del congedo parentale (fu introdotto nel 1974, oggi prevede 480 giorni che mamma e papà si dividono liberamente, dopo i primi novanta obbligatori per l'uno e per l'altra) e dell'occupazione e istruzione femminile (i due terzi dei laureati sono donne). Traguardi che abbiamo sempre ammirato, che ci hanno sempre spinti a posporre "Svezia" alla dicitura "paese civile" e che ora ci sembrano abbagli. Ora che il patriarcato svedese è finalmente venuto a galla, non ci lasceremo più abbindolare da inezie come il più antico suffragio universale del mondo o il miglior welfare statale europeo: nulla di tutto questo sana il disagio psicologico, l'impotenza, l'umiliazione, la discriminazione che derivano dal vivere in una capitale dove i maschi guidano le macchine e statue maschili equestri incombono sulla popolazione inerme.

 

Amiche svedesi, rifugiatevi a Roma: sul Pincio, in centro, a pochi passi da una noiosa statua di Giuseppe Garibaldi, patriota, c'è quella della sua compagna Anita, scolpita mentre doma un cavallo imbizzarrito, allatta e punta una pistola. Non che il suo sguardo abbia fermato le decine di signore che, lo scorso otto marzo, per protestare contro il patriarcato, si sono smutandate per strada (facciamo ana-suromai! dicevano), a dimostrazione del fatto che le statue sono sempre innocue e, come i libri, vanno lasciate là dove sono, senza imbarazzanti correzioni posticce.

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