Le parole sono importanti. Anche quando si parla di molestie

Antonio Gurrado

La confusione di termini e di etichette per definire casi diversi rischia di diventare pericolosa

In fondo è tutto un problema di etichette, di definizioni: di cosa parliamo quando parliamo di molestie? Secondo un sondaggio online del Corriere, per un lettore su due è molestia sfiorare il ginocchio di una segretaria (per il 2 per cento dei lettori è violenza sessuale); per il 15 per cento è molestia dire a una collega che è bella (per il 2 per cento è stalking); per il 17 per cento è molestia chiamare “stellina” una sottoposta (per l’8 per cento è abuso); per il 18 per cento è molestia provare a baciare un’invitata a cena ma lasciar perdere quando lei si rifiuta (per il 2 per cento è violenza sessuale). Con questa confusione di termini, è facile che le molestie vere – per non parlare degli abusi e delle violenze sessuali – finiscano per dissolversi in una nottata in cui tutte le vacche sono bigie.

  

Ad esempio, stando ai titoli dei quotidiani, rientra nella fattispecie della molestia anche la disavventura occorsa a una giovane Mara Venier: nel corso di un’affollata cena a casa di un politico importante, all’incirca un quarto di secolo fa, fu condotta dall’ospite in un’altra sala a vedere dei quadri: una volta visti i quadri, scoprì che gli altri dodici invitati se n’erano andati nel frattempo. Che cos’è? Per i titolisti è molestia, per me è un’avance noiosa, per la Venier è stato un approccio arginabile (“Me ne andai. Non ero arrabbiata con lui, che ho messo a posto in un attimo”) ma è probabile che per un 2 per cento di lettori si tratti di violenza di gruppo. È tutta questione di etichette, di definizioni. Ad esempio, l’abusata formula con cui in questi giorni si elogiano a ogni pie’ sospinto le donne che a distanza di anni trovano il coraggio di denunciare, magari facendolo a volto coperto e senza controprove, in quale fattispecie potrebbe rientrare? Lotta alle molestie o istigazione alla diffamazione?

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