La Brexit svela che per i ricercatori universitari Oxford vale Gravina

Antonio Gurrado

Giovani che sproloquiano sulle conseguenze nefaste del Leave, ma che si mascherano dietro alti ideali per restare aggrappati al proprio seggiolino

Ulteriore effetto collaterale dell'incombere della Brexit sono le interviste ai giovani ricercatori europei di stanza a Cambridge o a Oxford. Costoro, increduli di poter riscuotere l'interesse di testate che altrimenti avrebbero perennemente ignorato la loro attività, indossano un viso sussiegoso e pontificano su ciò che i lettori si aspettano di sentirsi dire: che la Brexit è un danno per la ricerca, che erano sbarcati in Inghilterra inseguendo il sogno di un'Europa senza confini, che in vista della chiusura dei rubinetti comunitari - pur senza sapere se e quando né cosa avverrà - stanno già cercando lavoro in altre università dell'Unione per scappare da una barca di cui si favoleggia l'affondamento ipotetico. Auguri.

 

Nessuno tuttavia nota l'altra faccia della medaglia. Cambridge e Oxford sono le università più affezionate a tradizioni secolari della specificità britannica ma, con la Brexit, stanno scoprendo di essersi riempite di ricercatori a cui queste tradizioni e queste specificità non interessano affatto: gente che si era trasferita in Inghilterra con la stessa indifferenza con cui avrebbe potuto trasferirsi a Heidelberg o a Lovanio o a Gravina perché ai suoi occhi, in un'Europa senza confini, un luogo vale l'altro. I ricercatori saranno rimasti delusi dalla Gran Bretagna dopo il referendum ma anche la Gran Bretagna non sarà entusiasta di ricercatori che, mascherandosi dietro alti ideali, dimostrano di non avere altra patria d'elezione che il proprio seggiolino.