Foto Patrik Nygren via Flickr

Se sullo stalking contano più i sentimenti che la legge

Antonio Gurrado

Il caso dello stalker condannato a pagare un'ammenda di 1.500 euro e della vittima che non si è costituita parte civile perché “non se la sentiva”

In Italia più delle leggi contano i sentimenti. La procura di Torino ha impugnato la sentenza che consente a uno stalker locale di cavarsela con un’ammenda di 1500 euro, e il Senato già questa settimana dovrebbe approvare un emendamento al disegno di legge sui crimini domestici onde evitare che gli stalker finiscano per essere come gli antichi nobili, quelli che si assolvevano dagli omicidi gettando qualche moneta d’oro sul cadavere ancora caldo. Ma il fatto di cronaca che ha causato tutto questo scandalo diffuso insegna ben altro. Un uomo vuol conoscere una ragazza della quale si è invaghito ma fa trascendere il desiderio in pedinamento, nel corso di due mesi. Non si fa. Viene denunziato per atti persecutori e giudicato con rito abbreviato. Concordemente con la legge offre un’ammenda riparatrice, i famosi 1500 euro, che la giudice reputa congrua in quanto il pedinamento è stato saltuario nonché privo di contatto fisico o verbale. Un emissario tribunalizio si presenta con l’assegno a casa della vittima, che però rifiuta equiparando l’ammenda a un inaccettabile mercimonio, a uno stalking a pagamento. Liberissima. Ma perché l’emissario ha dovuto raggiungerla a casa? Perché lei non è mai andata in tribunale né ha mai nominato un avvocato. A Repubblica la vittima ha spiegato di non essersi mai presentata davanti alla legge perché non le andava, perché non se la sentiva. La giudice ha dunque dovuto decidere in sua assenza e ha saggiamente optato per la strada più breve e pacifica. Tutti hanno strillato; tutti hanno lodato il nobile gesto della vittima. Nessuno però ha notato che, magari, la prossima volta che uno stalker dovrà spiegare perché ha pedinato qualcuna, potrà sentirsi in diritto di rispondere davanti alla legge: “Perché mi andava, perché me la sentivo”.

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