"Lot e le sue figlie", di Francesco Hayez (1833)

Peggio dell'abuso dei migranti c'è solo l'abuso di metafore dei migranti

Antonio Gurrado

La nuova opera di Giorgio Battistelli vuole essere, a sproposito, una pubblicità all'accoglienza

Non so se sia peggio l'abuso di migranti o l'abuso di metafore. Intendo sia nel senso che lo stesso termine “migranti” suona talmente bene e vuol dire talmente nulla da venir infilato come spezia su qualsiasi discorso da condire con parole buone; sia nel senso che, dovunque ci si giri, si trova una metafora dei migranti. Ad esempio ne “Le figlie di Lot”, nuova opera di Giorgio Battistelli (su libretto di Jenny Erpenbeck) che debutterà in aprile a Hannover. La storia è arcinota: due angeli arrivano a Sodoma, Lot li ospita, i sodomiti picchiano alla porta perché vogliono abusarne, Lot difende gli ospiti allo stremo perché l'ospite è sacro. È una metafora dei migranti. Certo, va ammesso che non è proprio un'ottima pubblicità all'accoglienza, se uno considera che per proteggere i migranti Lot offre ai sodomiti le proprie figlie vergini, quindi la città perisce sotto una pioggia di fuoco, quindi la moglie di Lot si trasforma in statua di sale, quindi le figlie di Lot ubriacano il padre per accoppiarcisi a turno.

 

Ma è una metafora dei migranti anche la scena della carovana di Lot che si allontana da Sodoma senza potersi voltare per ordine divino, postilla Battistelli, “come ben sanno i migranti che perdono per strada affetti e memorie ma vanno avanti”. Tutto ciò, nel capitolo 19 della Genesi. Se la si sfoglia qualche pagina indietro e si torna al capitolo 13, si scopre tuttavia che Lot è figlio del fratello di Abramo, e che a un certo punto le famiglie dei due sono proliferate talmente che Abramo dice a Lot che si è un po' troppi per uno spazio piccolo, che il mondo è vasto, e che quindi, se gli preme conservare ottimi rapporti di fratellanza, gli conviene smammare. Questa non andava, come metafora dei migranti?