Ian McEwan (foto LaPresse)

Quel pubblico di benpensanti che vuole sentirsi dire solo ciò che si aspetta di sentire

Antonio Gurrado

La vicenda dell'intervista allo scrittore McEwan sulla Brexit che aveva già scatenato i riflessi condizionati di mezzo mondo

Dura, la vita dello scrittore in questo mondo di pappagalli. Prendete Ian McEwan e le sue infelici primavere. Un anno fa, durante un discorso alla Royal Institution, aveva proclamato che l'identità non può essere liberamente scelta da uno scaffale di personalità alternative e che le persone dotate di pene vanno considerate maschi, punto. Il dibattito era degenerato e McEwan, temendo di vedere inesorabilmente eroso un pubblico composto in larga parte di progressisti benpensanti, si era visto costretto a una palinodia, a una lettera aperta piena di parole come “transgender”, “ridefinire”, “diritti”, “rispetto”: parole senza valore per uno scrittore, perché sono soltanto l'eco di discorsi altrui. Quest'episodio aveva dimostrato che dagli scrittori il pubblico non vuole mai sentirsi dire ciò che non si aspetta di sentire.

 

Stavolta invece Ian McEwan è stato intervistato in Spagna dai soliti giornalisti pigri, che quando vedono un grande autore non resistono alla tentazione di appiattirlo sulla polemica d'attualità, e che sarebbero in grado di chiedere un compitino sulla Brexit anche a Shakespeare redivivo. Richiesto di un parere, McEwan ha detto che l'esito del referendum d'oltremanica era piuttosto nazista. Allora gli ha fatto codazzo tutta una serie di commenti pavloviani sul populismo, sugli anni Trenta, sulla retorica del diverso, fino a che McEwan stesso non ha dovuto di nuovo prendere carta e penna per chiarire: dell'inglese gli spagnoli capiscono fischi per fiaschi, lui non aveva detto “Nazi” ma semplicemente “nasty”. Il pubblico però, oramai, dagli scrittori pretende di sentirsi dire soltanto ciò che si aspetta di sentire.

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