Pierfrancesco Favino è tra i protagonisti di Suburra, il film ispirato a mafia capitale

La messa in scena di Mafia Capitale

Massimo Bordin
Film, libri, pm che giocano a fare giornalisti e inchieste alla "Pulp Fiction". Come l’allegro circo mediatico-giudiziario-cinematografico ha trasformato mafia capitale in un brand di successo (e pazienza se la mafia non c’è, no?).

Siamo ancora ai giri di ricognizione ma il cinque novembre scatteranno i famosi semafori e il gran processo inizierà. L’altro grande dibattimento intanto vede girare la safety car, molti incidenti di percorso hanno funestato il gran premio della trattativa stato-mafia, dal supertestimone pataccaro in panne ai pentiti che vanno a sbattere alla prima curva. A Roma gli organizzatori sono altra cosa, tanto è vero che dopo aver frequentato l’autodromo di Palermo sono arrivati alla Capitale. Altra scuola ma, come vedremo, qualcosa del passato resta. La mafia. Non può non esserci, il pubblico la vuole. E così tutto è iniziato. La corsa si giocherà su questo. Il 2 dicembre dello scorso anno sono iniziate le prove con l’operazione della procura romana che conteneva la parola chiave. Intendiamoci, l’operazione aveva avuto una preparazione accurata e i presupposti non mancavano. Ma non è mancato il supporto mediatico necessario per costruire una storia di qualche successo. E, come notato qualche settimana fa dal presidente delle Camere penali italiane Beniamino Migliucci, la stessa manifestazione mediatica con la quale la procura romana mette in scena, attraverso una conferenza stampa multimediale e una diffusione da trailer cinematografico degli arresti, l’operazione Mafia Capitale sembra anch’essa la riaffermazione di un rapporto di forza, tutto spostato sul piano dell’investigazione penale. A questo punto si può uscire dalla metafora automobilistica del circus di Ecclestone e passare a quello mediatico-giudiziario di Soulez-Larivière.

 

Mafia Capitale è diventato un brand affermato e trionfale, e non poteva essere altrimenti. Nel settembre 2013 era in libreria una brochure di sicuro successo. “Suburra”, del giudice De Cataldo e del giornalista giudiziario di Repubblica Bonini, metteva in prosa, per la berlusconiana Einaudi, la saga criminale romana e le ultime intercettazioni sul suo milieu. Successo di vendite assicurato dopo il trionfo televisivo della serie Sky sulla “banda”, che a Roma è una sola e sta alla Magliana. Solo che all’epoca del Libanese e del Dandy un mafioso di spicco c’era davvero ed era Pippo Calò che li convocava al ristorante “Al montarozzo” e impartiva gli ordini che gli importavano. Quando, negli anni 80, l’azzimato Calò venne arrestato in un palazzo del quartiere Prati, i suoi badanti romani vennero accusati perfino di strage, quella del rapido 904, ma nessun magistrato pensò al 416 bis. Un ruolo di supporto, il loro, non di più. Oggi a Roma non ci sono, per fortuna, i Calò o i Frank Coppola o i Rimi di Alcamo, ma la procura è pronta a giocare la carta della contestazione del 416 bis a una serie di aggregati indigeni. La pressione mediatica aiuta – e aiuta a nascondere bene anche i casi in cui la contestazione del 416 bis decade, come è successo qualche settimana fa con l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno.

 

Il processo, poi, inizierà con il film già nelle sale. Dicono che cinematograficamente non sia un gran che, ma non è questo il punto. Funziona comunque. Eppure le date possono mostrare la difficoltà dell’opzione accusatoria. Il capo di imputazione, come abbiamo visto, è del 2 dicembre 2014. Nel grande calderone delle inchieste romane succede che due mesi dopo, in un’inchiesta parallela, arriva la prima sentenza di condanna per 416 bis per il cosiddetto clan Fasciani di Ostia. Il tribunale sentenzia 14 condanne su 19 imputati nella operazione “Nuova Alba”. Ironia della sorte, a essere assolti furono i fratelli Triassi, sulla cui mafiosità aveva dato ampie assicurazioni il pentito Spatuzza, in trasferta da Palermo. Quello che conta è che la sentenza, di primo grado, dica che a Roma un clan mafioso comunque c’è, e poco importante che il litorale di Ostia non sia esattamente sovrapponibile con Roma. Passa un mese e c’è una nuova importante operazione, denominata in codice “Tulipano”. Al quartiere Tuscolano sono colpiti i gruppi di Michele Senese di Afragola, detto “‘o Pazzo”, e di Domenico Pagnozzi, suo killer di fiducia, originario dell’avellinese. Viene arrestato anche un romano in passato appartenente al mondo dell’estremismo armato di destra e per questo associato a Massimo Carminati, figura chiave, detto “er cecato” a Roma nord e “il samurai” nel libro di Bonini-De Cataldo. Eppure è proprio il procuratore aggiunto Michele Prestipino che, invece che enfatizzare il pur debole collegamento, minimizza. Fra Fasciani, Carminati e Senese-Pagnozzi c’è “rispetto criminale”, “si conoscono, coesistono, non c’è nessun tavolo di regia”. Siamo lontani dalle modalità delle organizzazioni criminali del tipo di “cosa nostra”. I morti ammazzati qui ci sono, è innegabile. Una sera d’estate a Torvaianica il fratello di Senese uccide Giuseppe Carlino dai fratelli Carlino e Pagnozzi, per conto del suo capo.

 

[**Video_box_2**]L’oggetto del contendere, diciamo così, era la spartizione dei proventi di una partita di droga. Ma sono cose che succedono ovunque ci sia criminalità. Già diverso il delitto della Camilluccia nel luglio dell’anno scorso. Tre persone con la divisa della Guardia di Finanza entrano in una palazzina dell’elegante quartiere di Roma nord, caro ai Petacci, per sequestrare Silvio Fanella, cassiere di quel Mokbel imputato nel processo Fastweb e le presunte mazzette di Finmeccanica. L’azione di forza pare giustificata da problemi di spartizione del bottino. Ma anche qui siamo lontani dagli stilemi mafiosi. Più che la strage di viale Lazio sembra Pulp Fiction. Il sequestro fallisce, la vittima si ribella e nasce una sparatoria. Fanella resta ucciso sul pavimento di casa sua e i rapitori mancati lasciano uno di loro ferito, fuggendo nel traffico della tarda mattinata. Insomma, un casino. Nel giro di pochi giorni sono tutti identificati e arrestati. Fra loro un congruo numero di ex estremisti di destra, vecchi la più parte e un “fascista del terzo millennio”, il ferito abbandonato. La procura parla di “una accurata pianificazione dell’azione” – anche se da come è andata non parrebbe. Uscirà fuori anche il tesoro di Fanella, nascosto in un casolare del frusinate. Banconote, orologi preziosi e sacchetti di stoffa con grossi diamanti nigeriani. I romanzi criminali della mafia sono diversi, è evidente, e infatti anche qui la procura si tiene sul low profile. Il procuratore aggiunto Prestipino nota come “l’unico contatto di Carminati con uno dei componenti del commando, Egidio Giuliani, sia la frequentazione del giro dei Nar a suo tempo e il più recente uso della stessa cabina telefonica di via Flaminia vecchia per le telefonate compromettenti ma comunque intercettate”.
Per questo, con ammirevole understatement, la procura romana non gioca la carta del “romanzo criminale” con l’inevitabile corollario di cadaveri e sparatorie. Un 416 bis light. Ma poco importa. Nella grande messa in scena romana la mafia è dovunque. E nell’èra in cui i magistrati prima ancora di occuparsi delle inchieste si preoccupano di come le inchieste verranno titolate sui giornali ha ragione chi sostiene che Mafia Capitale non è un evento di cronaca giudiziaria ma segna una svolta qualitativa nei rapporti fra politica e magistratura, fra media e procure, ma anche fra procure e magistratura nel loro complesso. Dove i fatti corruttivi vengono interpretati in chiave mafiosa. E dove se le norme non si piegano ai fatti saranno i fatti a piegarsi alle norme.

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