Il mondo non è New York City. Vista aerea di Manhattan e del suo Central Park

Quella sòla del suolo

Marco Eramo

Quanta fuffa nei numeri e nelle tesi degli indignati che denunciano l’inarrestabile consumo di suolo in Italia. Il Parlamento, se li ascolta, compie un inutile errore.

La commissione Ambiente della Camera dei deputati sta lavorando all’approvazione della tanto invocata legge sul contenimento del cosiddetto “consumo di suolo”. Si tratta del testo unificato che tiene conto delle diverse proposte depositate in materia, la cui ossatura fondamentale è costituita dal disegno di legge presentato dal governo, ai tempi dell’esecutivo Letta, con Nunzia De Girolamo al ministero delle Politiche agricole e Andrea Orlando a quello dell’Ambiente.

 

Sono cambiati il capo del governo e i titolari dei dicasteri coinvolti, ma non è cambiata l’impostazione. E ora – magari con il traino mediatico dell’Expo e dei mille eventi che metteranno al centro la retorica della difesa dell’agricoltura, del mangiare biologico, delle reti corte e del Km zero – la legge quadro potrebbe approdare nell’Aula di Montecitorio, e avere una fortuna diversa da quella, dal contenuto analogo, presentata ai tempi del governo Monti dal ministro (ex Direttore generale) delle Politiche agricole Mario Catania.

 

Il testo del disegno di legge è il risultato di un dibattito – ammesso che sia possibile scomodare questa parola – nel quale prevale l’opinione, diffusa negli editoriali dei giornali e ripresa, senza eccezioni, nelle dichiarazioni dei politici di tutti gli schieramenti, in base alla quale la cosiddetta “cementificazione” continua a divorare, giorno dopo giorno, enormi quantità di suolo non urbanizzato. Tale tendenza non conoscerebbe flessioni, e proprio questo continuo incremento – in corso e dunque da fermare – delle superfici impermeabilizzate sarebbe all’origine dei danni che si registrano in corrispondenza di ogni evento meteorologico particolarmente acuto.

 

Questa opinione dominante si è affermata anche grazie all’occultamento dei dati statistici pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica che evidenziano come la quantità di suolo impermeabilizzata dal 1980 in poi aumenta in modo sensibilmente inferiore rispetto a quanto accadeva nei decenni precedenti. Nella vulgata predominante non sono meritevoli di alcuna segnalazione neanche le tabelle contenenti i dati relativi ai numeri delle abitazioni esistenti e delle famiglie, che l’Istat, giustamente, incrocia mostrando come, nonostante la popolazione cresca meno del numero delle abitazioni costruite, il numero delle abitazioni sia inferiore al numero dei nuclei famigliari che sono i soggetti che domandano un’abitazione.

 

Mentre il professore Salvatore Settis e altri illustri accademici, con cadenza periodica, aprono le prime pagine dei giornali con i numeri dei campi di calcio cementificati ogni giorno, lo stesso Istituto nazionale di statistica ci ha informato che nel primo semestre del 2014 l’edilizia residenziale presentava una contrazione rispetto allo stesso periodo del 2013 (meno 11,4 per cento le abitazioni e meno 9,1 per cento la superficie utile abitabile). Per l’edilizia non residenziale, la situazione non era diversa, visto che si registrava una diminuzione del 10,8 per cento rispetto al primo semestre del 2013. Tutto ciò ha determinato, rispetto al primo trimestre del 2014, un calo annuo della produzione nelle costruzioni che supera l’11 per cento. A questi numeri, si aggiungono quelli ancora più impietosi contenuti in un documento della Banca d’Italia, lasciato alla Camera in occasione di un’audizione sul cosiddetto Sblocca Italia, che documenta come tra il primo trimestre del 2008 e il secondo del 2014 l’attività nelle costruzioni ha cumulato una perdita prossima al 30 per cento, contribuendo per 1,5 punti percentuali al calo del pil. E tutto ciò fa sì che, stando ai dati forniti dall’Associazione nazionale costruttori (Ance), dal 2008 a oggi, l’edilizia abbia registrato una perdita di 446 mila posti di lavoro e il fallimento di più di 11 mila imprese.

 

Ma questi dati non trovano lo stesso spazio che sui giornali hanno trovato, specialmente nell’ultimo biennio, gli articoli degli editorialisti e degli accademici indignati, come Settis che presenta come prove del crimine – tale viene considerata una pratica sociale ammessa dalla Costituzione e dalle leggi come l’utilizzo del suolo – le stime fatte dall’Ispra con l’utilizzo di programmi che elaborano rappresentazioni fotografiche del suolo, con una rete di rilevamento che non copre in modo omogeneo il nostro territorio, e le serie storiche ricostruite attraverso basi di dati che non possono essere omogenee (come si comparano la qualità delle informazioni disponibili sulla situazione attuale o degli ultimi anni con quella dei primi decenni del secolo scorso?). E nel fronte degli indignati si registrano anche divergenze non proprio irrilevanti. Il professore Alberto Ziparo dell’Università di Firenze, in un editoriale pubblicato sul quotidiano Repubblica lo scorso novembre – a sostegno della necessità di far decadere il decreto Sblocca Italia – ha presentato i dati sul consumo di suolo del collega dell’Università dell’Aquila, Bernardino Romano, per il quale i chilometri quadrati di suolo coperti non sarebbero, come stimato dall’Ispra, poco meno di 22 mila, ma oltre 70 mila.
Una volta descritto il contesto, è necessario passare all’esame della norma in discussione, ragionando a proposito di alcuni dei principi enunciati nell’articolo 1, a partire dall’ultimo comma, il 4, secondo il quale “le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali favoriscono la destinazione agricola e l’utilizzo di pratiche agricole anche negli spazi liberi dalle aree urbanizzate e perseguono la tutela e la valorizzazione dell’attività agricola attraverso la riduzione del consumo di suolo”.

 

Stando agli estensori della norma, in un paese come l’Italia, l’obiettivo da perseguire con le politiche di sviluppo, sia nazionali sia regionali, sarebbe quello di favorire la destinazione agricola del territorio italiano, e di far sì che vengano coltivate anche le parti libere, non costruite e impermeabilizzate, delle aree urbanizzate. Chiunque legga i documenti comunitari in materia di spazio rurale sa bene che le strategie riferite allo spazio rurale non si fondano sulla tutela e la valorizzazione dell’attività agricola, e dunque sulla salvaguardia della vocazione produttiva (agricola) di quelle aree, ma sulla cosiddetta multifunzionalità. E dunque le politiche di sviluppo non possono essere costruite – come sostenuto nella legge – intorno a una rigida partizione del territorio in due, da una parte le aree urbanizzate e dall’altra quelle libere da destinare alla produzione agricola. E’ necessario adottare politiche finalizzate a un uso integrato e sostenibile dello spazio rurale e di quello urbanizzato che, ormai, sono in buona parte sovrapposti, e già integrati.

 

La rurbanisation – e dunque la progressiva espansione dello spazio urbanizzato che occupa con densità differenziate anche lo spazio rurale – è un fenomeno europeo e mondiale che va governato nel tentativo di contenerne e gestirne le principali criticità, e di valorizzarne gli aspetti positivi. Demonizzarlo serve a poco, e farlo, come tentano di fare gli estensori di questa legge, opponendo una sorta di ruralizzazione del territorio (non urbanizzato) italiano, è una operazione ideologica, destinata a essere ineffettiva, soprattutto se implementata, come recita il comma 4 dell’articolo 1 richiamato sopra, soltanto “attraverso la riduzione del consumo di suolo”.

 

E’ noto che sono diversi i fattori all’origine di una progressiva riduzione delle aree che possono essere destinate, in modo conveniente e sostenibile, a usi agricoli e che, dunque, la tutela dell’attività agricola in buona parte del territorio nazionale non possa essere perseguita grazie a una semplice azione interdittiva che impedisca la trasformabilità delle aree agricole, a meno di non associare a tutto ciò una misura – questa sì insostenibile, da un punto di vista economico e non solo – con la quale socializzare una parte dei costi da sostenere per conservare la destinazione di aree agricole non utilizzabili come tali in modo conveniente e duraturo. Su questo aspetto, è utile segnalare come in base ai dati forniti dall’Istat in Italia, disponibili rispetto al periodo compreso tra il 2004 e il 2010, il 4,6 per cento del territorio agricolo ha cambiato destinazione, ma solo un quarto è stato artificializzato, e dunque urbanizzato. La parte restante delle aree si è trasformata in area naturale non coltivata. Il che significa che la perdita di aree agricole è determinata dai mutamenti tecnologici, dal generale aumento di produttività dell’agricoltura, dall’apertura dei mercati e dall’insostenibilità economica di determinate colture, più che dalla domanda di trasformazione connessa al cosiddetto consumo di suolo. Di fronte a ciò, la legge in discussione potrà davvero poco.

 

Restando alle finalità della legge enunciate nell’articolo 1, è opportuno leggere anche il comma 2, in base al quale “fatte salve le previsioni di maggior tutela delle aree inedificate introdotte dalla legislazione regionale, il consumo di suolo è consentito esclusivamente nei casi in cui non esistono alternative consistenti nel riuso delle aree già urbanizzate e nella rigenerazione delle stesse”.

 

Stando a quanto riportato sopra, la legge in discussione dovrebbe individuare il modo attraverso il quale verificare se un bisogno e/o il perseguimento di un legittimo interesse – perché è di questo che si parla o almeno si dovrebbe parlare quando si parla di trasformazione del territorio – possano essere soddisfatti senza utilizzare suolo non ancora urbanizzato. Il concetto e la sfida sono chiari, le parole e le definizioni scelte dal legislatore decisamente meno. Basta soffermarsi sulla definizione centrale del disegno di legge, quella di consumo di suolo, che nel successivo articolo 2 viene definito come “incremento annuale netto della superficie oggetto di impermeabilizzazione del suolo nonché di interventi di copertura artificiale non connessi all’attività agricola”.

 

[**Video_box_2**]La definizione scelta, connessa al principio menzionato all’inizio, rende subito chiaro come la valutazione delle alternative – che come tale dovrebbe consentire di ponderare anche il costo economico e sociale, destinato a protrarsi nel tempo, delle diverse scelte insediative, e non solo i metri quadrati di suolo impermeabilizzati e/o coperti artificialmente – non venga fatta, come sarebbe necessario, di volta in volta o comunque rispetto a situazioni, esigenze e ambiti territoriali definiti in modo pertinente.
Come discende dal combinato disposto degli articoli 1 e 2, infatti, l’incremento annuale netto della superficie impermeabilizzata, presumibilmente con riferimento all’intero territorio nazionale, è consentito – non si sa ancora bene da chi e in che modo – soltanto nei casi in cui non è possibile, in alternativa, riusare e rigenerare aree già urbanizzate. Ciò significa che la valutazione di eventuali richieste di trasformazione del territorio, che interessano aree non edificate, non possa essere fatta – come continua a essere previsto dal nostro ordinamento – nel momento in cui vengono presentate, e con riferimento all’ambito territoriale di riferimento, ma deve essere fatta tenendo conto della quantità di suolo “netto” impermeabilizzata nell’anno precedente, e della medesima quantità prevedibile riferita all’anno in corso. E se la cosa non fosse già sufficientemente infattibile, bisogna di seguito accertare anche la disponibilità – concretamente e non in astratto – di aree urbanizzate da riusare e rigenerare.

 

Ammesso che tutto ciò abbia senso – e senza trascurare il fatto che la sola esistenza di aree urbanizzate potenzialmente riutilizzabili non basta per dimostrare l’esistenza di una alternativa concreta all’utilizzo di suolo non ancora urbanizzato – ci si aspetterebbe, negli articoli successivi, la definizione e la descrizione di un meccanismo che consenta di fare tutto ciò.

 

Ma nell’articolo 3 viene previsto altro: un’articolata sequenza di atti con la quale si arriva a definire – attraverso un decreto del ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, adottato di concerto con quelli dell’Ambiente, dei Beni culturali e delle Infrastrutture e dei Trasporti – la riduzione progressiva, in termini quantitativi, del consumo di suolo a livello nazionale, valida con riferimento a un arco temporale quinquennale. Per l’ampio arco parlamentare che raccomanda l’approvazione di questa legge, è sufficiente stabilire che, da ora in poi, la quantità del suolo nazionale impermeabilizzabile nel successivo quinquiennio venga fissata per decreto. Non a caso, una volta stabilito che la quantità nazionale fissata verrà ripartita in quote regionali, con una delibera della Conferenza Unificata, il legislatore ritiene esaurito il suo compito. E per quanto riguarda le fasi successive – le più delicate e rilevanti – si riscopre regionalista, e si limita a stabilire che le regioni dispongono la riduzione del consumo di suolo e determinano i criteri e le modalità da rispettare nella pianificazione urbanistica di livello comunale.

 

L’esigenza di riqualificare le relazioni tra lo spazio urbanizzato e le aree libere, e di ricostituire un rapporto più equilibrato, e sostenibile nel tempo, tra le domande di trasformazione e funzionalizzazione del territorio e le matrici ambientali, è innegabile.
Per farlo, occorre, prima di tutto, prendere atto che la parte più rilevante dei problemi da affrontare dipende dall’eredità lasciata dai processi di urbanizzazione sviluppatisi durante la seconda metà del secolo scorso, rispetto alla quale la legge in discussione non fornisce strumenti adeguati ed incisivi. In seconda battuta, occorrerebbe dotarsi di strumenti (anche rafforzando quelli esistenti, si pensi alle procedure di Via e di Vas per esempio), con i quali accertare in che misura le esigenze e i bisogni connessi all’uso del suolo, e/o che implicano il medesimo uso, possano essere soddisfatti, impermabilizzando e coprendo artificialmente ulteriori quote di suolo, e in che misura possano essere soddisfatti attraverso il riuso delle aree urbanizzate, valutando alternative concretamente percorribili in contraddittorio con i soggetti interessati e con il pubblico.
Ma tutto ciò, nel disegno di legge, non è previsto, sia perché si prediligono scorciatoie autoritative e dirigiste – per costruire e gestire processi valutativi efficienti e responsabili bisognerebbe avere (e volere) una Pubblica amministrazione adulta, e possibilmente non sotto la custodia di Raffaele Cantone e della Corte dei Conti – sia perché si ritiene che le domande di trasformazione del territorio siano venute meno (quelle che si palesano sono, per definizione, frutto della speculazione) ovvero vadano azzerate, per il solo fatto che la popolazione non cresce e che il modello economico sta cambiando. Senza trascurare il fatto che buona parte degli ispiratori/sostenitori della legge parlano e scrivono di “sviluppo locale autosostenibile” ma, in realtà, pensano nostalgicamente a regimi autarchici, all’interno dei quali si mangia quel che viene prodotto nel territorio retrostante, con buona pace della globalizzazione, dell’apertura dei mercati e dei benefici connessi.

 

Sarà anche per questa ragione che, una volta approvata la legge in discussione, a tirare le fila delle diverse azioni pubbliche e private riferite al territorio italiano – riordinandole gerarchicamente in nome dell’interesse giudicato prevalente costituito dalla tutela delle aree agricole – sarà il titolare di un Ministero del quale, nel 1993, gli italiani avevano chiesto e ottenuto la soppressione con il voto referendario. Non è il caso di pensarci bene e di scongiurare che ciò venga stabilito?

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