Matteo Renzi (LaPresse)

The show must go on

Mario Sechi

Dopo il "capolavoro" dell'elezione di Mattarella lo spettacolo deve andare avanti, e Matteo Renzi non potrà più bluffare senza essere scoperto. Ecco perché il presidente del Consiglio dovrebbe darsi da fare per colmare il distacco tra le sue stupefacenti abilità di manovratore politico e le disarmanti operazioni di governo fatte e disfatte in questi mesi - di Mario Sechi

Flashback. La musica è il ragtime di Scott Joplin rivisto da Marvin Hamlisch, le immagini sono di George Roy Hill, il titolo è “La Stangata”. Solo che non siamo in Illinois, non sono gli anni Trenta, i protagonisti non sono Robert Redford, Paul Newman e Robert Shaw, lo scenario non è una sala corse e di cavalli non c’è l’ombra. Siamo nel Parlamento italiano, il calendario segna 31 gennaio 2015, gli attori sono Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, ma il titolo in cartellone sì, perbacco, quello è lo stesso: la stangata.

 

L’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è stata un capolavoro di Matteo Renzi. Impossibile non ammirarlo, andare avanti e indietro con il telecomando, fermarsi, guardare le facce incredule degli scommettitori: play, stop, rewind, forward, rallenty…cribbio! è andata proprio così.

 

Sì, è andata così. Sala corse. Puntata. Bidone. E vittoria per Renzi che ha indossato i panni di Henry Gondorf (Paul Newman) e ha messo in piedi una corsa dove tutto era vero e tutto era finto.  La puntata di Berlusconi e Alfano era sicura, il Trofeo là, a portata di mano, luccicante come i corazzieri. Non era necessario neppure andare a cercare il fuoriclasse della pista, Seabiscuit, Ribot, Varenne, Secretariat, leggendari galoppatori. Bastava un buon esemplare, prelevato da un allevamento di consolidata tradizione, per andare spediti verso il Colle. Eccolo, un esemplare dal mantello baio, già regolato per l’andatura al trotto. Un Casini del Nazareno sarebbe stato ottimo. E Renzi-Gondorf sembrava pronto a smezzare il montepremi. Ma il Gran Premio del Patto non si è mai svolto. Gli scommettitori, improvvisamente, hanno ascoltato una radiocronaca diversa, gli altoparlanti della sala scommesse gracchiavano il racconto del Derby del Pd.  Niente fotofinish, cavalli sfiniti, doping e fantini che all’ultimo momento cambiano scuderia. Ha tagliato il traguardo, solitario, un cavallo siciliano, una razza che si considerava estinta con la scuderia dello Scudocrociato, un galoppatore insospettabile, dallo zoccolo non ferrato ma pareggiato, stimato per le sue qualità dai carabinieri, già schierato anni fa in Difesa: il Mattarella.

 

Sceneggiatura perfetta. Sette Oscar. Nel film di Roy Hill, l’agenzia di scommesse sparisce, smontata in un paio d’ore, Henry Gondorf e Johnny “Kelly” Hoocker (Robert Redford), scappano con la cassa (e le donne) e tutti vissero felici, (s)contenti e gabbati. Ma questo non è il cinema, non è l’arte della sceneggiatura, non è l’Illinois, non sono gli anni Trenta e il Parlamento italiano (anche se non sta tanto bene), non leva ancora le tende.

 

The show must go on. Lo spettacolo deve andare avanti e Matteo Renzi non potrà vestire un’altra volta i panni di Gondorf senza essere scoperto. La bricconeria politica può tramutarsi in manovra che desta grande ammirazione, ma è un’arma letale che ha sempre pochi proiettili d’argento in canna. Finiti quelli, la giungla è uguale per tutti. E anche il più ingenuo tra gli agnelli, dopo aver visto morire i suoi simili, non va più a brucare l’erba vicino alla tana della volpe. “Sei stato birichino”, sono le parole di Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, incrociato al Palazzo del Quirinale nel Mattarella Day. “Lui è un biricone”, ha risposto Renzi da Bruno Vespa, eterna terza camera del Belpaese. Eccolo, “il teatrino” di berlusconiana memoria, è di nuovo in onda. Play. Stop. Rewind. Forward. Si ricomincia con un altro gioco da telekommando e un pezzo tutto nuovo sulla scacchiera: Mattarella. Il Presidente ha giurato, ha fatto il discorso che doveva fare, ha preso gli applausi e l’incenso che doveva prendere. Copione senza colpi di scena. Quelli arriveranno dopo, con la calma epica della Balena Bianca di Melville. Mi chiedo chi farà la fine del capitano Achab.

 

Ora si torna a suonare lo spartito del governo. L’orchestrina finora non ha mai trovato tono e ritmo giusto d’esecuzione. Senza esser presi per gufi (meravigliosi volatili notturni) e al netto della liturgica spacconeria renziana, qui i problemi sono tutti aperti e il presidente del Consiglio dovrebbe darsi da fare per colmare il distacco tra le sue stupefacenti abilità di manovratore politico e le disarmanti operazioni di governo fatte e disfatte in questi mesi. Presto la realtà tornerà a bussare alla porta di Palazzo Chigi. C’è materia di cui discutere ampiamente, senza passare per disfattisti e nemici della patria. Ecco due o tre cose in rigoroso ordine sparso, l’elenco ad alta gradazione di un Jepp Gambardella qualsiasi in una qualunque terrazza romana dove il liquore ha ormai messo a nudo l’ipocrisia dei divanisti. Il governo, i suoi ministri, il presidente del Consiglio, facciano due più due prima di scambiare un dato (l’ultimo sull’occupazione, positivo ma friabile come un cracker) per una tendenza, pensino al credito e non al debito prima di prendere a colpi di decreto le banche popolari (da riformare, certamente, ma dove sono i requisiti di necessità e urgenza?) e lasciare che spifferi e rumors gonfiassero con gli estrogeni della speculazione i titoli delle quotate e il portafoglio di qualche trader del Londonistan troppo bene informato, studino la materia fiscale (e la Costituzione, quella tanto cara a Mattarella) prima di riportare sul tavolo del consiglio dei ministri un provvedimento sull’evasione che sembra scritto da un tributarista che ha alzato il gomito. Continuo? Massì, perché in molti pensiamo che Renzi sia il last resort di questo Strapaese così bello, così ricco e così fragile. E qualcuno dovrà pur scriverlo che bisogna salvare Renzi dai renzisti, non per la sua augusta persona, ma per il bene del Paese. Il segretario fiorentino sarà anche il Royal Baby dipinto magistralmente da Giuliano Ferrara, ma la sua corte appare una caricatura sciacquata in Arno di quella del Cav. E’ vero, il leader precede, decide e l’intendenza segue l’ordine del generale, ma perdinci, lasciate che Maria Elena Boschi dai sublimi boccoli parli di riforme e non di fisco, materia sulla quale s’è incartata citando a sproposito la Francia, mentre Giletti la squadrava, encantado, ne L’Arena. Todos caballeros.

 

Ma certo, figuriamoci, ancora penso – nonostante tutto – “meglio Renzi”, come scrissi nell’agosto scorso sul Foglio in un pezzo dal titolo chiaro e leale come solo sanno fare gli amici sinceri: “Tutte le bischerate di Renzi”. Sono trascorsi altri cinque mesi, quasi un anno di governo, tra poco (22 febbraio), e siamo ancora là. Stop! Fermi al semaforo della vigilessa di Palazzo Chigi, snodo di una governance con un deficit preoccupante di competenza e ordine, con i decreti che sono pasticci illeggibili, con le poste di bilancio che ballano, con la pressione fiscale che diminuisce davanti alle telecamere ma rimane invariata nei documenti ufficiali, con il risparmio degli italiani tosato come non mai, con le tabelle del ministero dell’Economia che dicono una cosa, mentre il premier ne racconta un’altra, tanto la carta non canta e non conta da un pezzo e nessuno più controlla lo stenografato d’aula, i lavori delle commissioni, le norme approvate, la Gazzetta Ufficiale. Roba noiosa, bisogna leggerla e rileggerla, studiarla e i giornali sono al lumicino, meglio ridurre la faccenda a un tweet, 140 caratteri e poi si vedrà, tanto domani è un altro giorno, disse Rossella O’Hara. Eppure siamo a una svolta che ha il pathos di “Via Col Vento” e proprio per mano del Presidente del Consiglio. Change. Cambia tutto. Napolitano è stato un “presidente di guerra”, un uomo chiamato a gestire il clangore dell’emergenza, del caos dei mercati, dello spread iperteso, della casa che brucia, dell’Europa sul punto di liquefazione, dei vertici lacrimosi tra Merkel e Sarkozy, tremanti di fronte alle armate schierate in sala trading. Ora, e lo dite voi, cari grandi elettori democratici, è venuto il tempo della “normalità”. E proprio per questo Mattarella non si farà legislatore con voi e per voi, non metterà il sigillo reale su ogni vostro strafalcione e salto costituzionale. E perfino il popolo, quello che auscultate con i sondaggi, prima o poi smetterà di firmare cambiali in bianco. Tira una brutta aria, in Europa. E lo sapete. Solo che pensate di farcela senza un disegno, per approssimazione, con cerca e trova, un drag and drop, un colpo al cerchio, una alla botte e un po’ di aumma aumma ministeriale. Non funziona, aprite gli occhi, prima che sia troppo tardi. Guardate bene cosa accade nel Vecchio Continente: la paella di Podemos in Spagna, la ratatouille di Le Pen in Francia, il London Gin distillato da Farage nel Regno Unito, i colpi di spingarda di Matteo Salvini in Italia, il ruggito della destra ultranazionalista in Germania e, dulcis in fundo, la sinistra defaultista di Tsipras e del suo Dottor Stranamore fiscale, Yanis Varoufakis, il ministro per casual che quando è in fase moderata definisce la politica economica dell’Europa come “fiscal waterboarding”. Il governo ha qualcosa da dire su questo punto? Non le frasi di circostanza, i comunicati del ciclostile politicamente corretto. No, caro Matteo, non quelli, ti prego. Hai regalato la cravatta a Tsipras, ma lui pensa che siamo dei cravattari. Abbiamo 43 miliardi di euro di esposizione con la Grecia, ma l’altro ieri a Tsipras, quello che paga in comodissime rate, nessuno l’ha ricordato in pubblico con l’energia che dovrebbe avere chi ha un cambialone da riscuotere. Sono soldi degli italiani che in queste ore ballano il sirtaki.

 

Andiamo avanti? Il rendimento dei titoli di stato tedeschi è sotto quelli del Giappone, per la prima volta. Fine del Bund Party, la crescita europea è un lento con la puntina del giradischi che fa scraatch! ogni venti secondi e vai con la deflazione che in Italia ieri ha toccato i minimi e bisogna fare macchina indietro di mezzo secolo per ritrovarla così nei bollettini di guerra dell’economia. Gufo? Pessimista? Io tengo in buon conto quello che diceva Winston Churchill: un pessimista è un ottimista bene informato.

 

[**Video_box_2**]The show must go on. Lo spettacolo deve andare avanti. Anche per il centrodestra. E che spettacolo. “Asfaltati” (copyright Matteo Renzi) dal giglio magico, quelli che oggi dovrebbero rappresentare i conservatori italiani (sì, proprio quelli, esistono) hanno l’aria di un pugile  che sul ring chiede “a che ripresa siamo?”, ma l’incontro è finito da un pezzo, con l’arbitro che dichiara la vittoria a sinistra, mentre la bellona a destra alza il cartellone della pubblicità del dentifricio che fa i denti più belli, il perdente si leva la dentiera, sputazza sangue, si gratta i punti di sutura e il pubblico ride a crepapelle. Suonati. Ci sarà tempo e modo per dire che cosa resta del ventennio berlusconiano, dei suoi figli sparsi e dispersi, del suo tempo gioioso e della sua allegra e tragica dissoluzione, ma di certo questo è un capitolo di comico strazio. Berlusconi è stato un leader di straordinaria grandezza – nel bene e nel male – circondato troppo spesso da uomini di altrettanto straordinaria pochezza. Grandina e nevica, là fuori, oggi e domani. E’ febbraio, s’alza un gelido tempo di coriandoli e balli in maschera. The show must go on.