Ultimo giorno di scuola e ultimo selfie di gruppo dopo il diploma alla Northside High School di Jacksonville, in North Carolina (foto AP)

Selfie ergo sum

Piero Vietti

Non solo narcisi. Dietro agli autoscatti postati sul web c’è un modo nuovo di raccontare se stessi e un desiderio antico.

“Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda…”
Clemente Rebora, “Sacchi a terra per gli occhi”

 

Il fenomeno degli autoscatti fatti con smartphone, tablet o webcam e condivisi sui social network è sezionato, dibattuto, analizzato e discusso con continuità da almeno un anno, da quando cioè l’Oxford dictionary ha inserito il termine selfie tra le sue voci. Ma ora che anche lo Zingarelli 2015 ha annunciato (con il solito italico ritardo) di avere inserito “la parola dell’anno” nella nuova edizione del suo vocabolario, c’è la scusa per provare a parlarne ancora. Anche perché in realtà sui selfie si continua a produrre giornalismo, letteratura e cinema (la ABC ha cominciato a trasmettere in America da due settimane la serie tv “Selfie”) e sicuramente si continuerà a farlo. Quello che per i più superficiali è solo un fenomeno passeggero e narcisistico è stato negli ultimi mesi sviscerato da giornalisti, sociologi, filosofi, economisti, psicologi, neuroscienziati e clienti di bar alla ricerca di una ragione per spiegare l’impulso che fa afferrare uno smartphone anche nelle situazioni più improbabili e imbarazzanti, puntarlo verso la propria faccia e toccarlo per fotografare noi stessi in un dato luogo e in un preciso istante.

Il selfie spesso è compulsivo, sempre più forte di noi, raramente studiato: ci si fotografa in bagno, a letto appena svegli o prima di dormire, alle feste (tantissimo, alle feste), allo stadio, per strada, in coda alla posta, in sala d’attesa, all’aperitivo con le amiche, anche mentre si fa sesso (provate a cercare #sexselfie su Twitter e Instagram). C’è chi si fotografa ai funerali con la faccia triste o annoiata (c’è un tumblr che raccoglie gli autoscatti da condoglianza migliori), e chi lo fa non sapendo che quella è l’ultima cosa che farà prima di morire: ciclicamente gira sui siti una gallery, ogni volta aggiornata, con questi scatti beffardamente felici, ragazzi e ragazze sorridenti prima di cadere da un palazzo, uscire di strada con l’auto, annegare in un fiume – che ci fa scuotere la testa e dire no, non è possibile. Un selfie come lapide digitale.

 

Al netto di idiozie, ignoranza e abusi (la storia di copertina del nuovo numero dell’Atlantic è una lunga inchiesta sul fenomeno del sexting tra gli adolescenti, cioè l’invio di selfie nudi o di parti intime che inevitabilmente finiscono nelle mani sbagliate), che cosa spinge tutti noi, ma soprattutto la generazione dei cosiddetti millennial, i nati dal 1980 in poi, a inondare i social network di selfie? Perché davanti a un evento, una persona più o meno famosa, un amico, un posto più o meno esotico uno dei primi pensieri che abbiamo è quello di farci un selfie? Che cosa – o chi – cerchiamo, in fondo, pubblicando in rete quell’autoscatto? Approvazione, sicurezza in noi stessi, complimenti? Certamente. Ma forse non è tutto qua.

 

Circa tre settimane fa il regista Matthew Frost ha pubblicato un breve video in cui si vede l’attrice Kirsten Dunst uscire di casa per aspettare qualcuno in strada. Prima passa una signora con cane al guinzaglio che neppure la nota, gli occhi fissi sullo smartphone. Poi un uomo su un’auto d’epoca che suona il clacson (Kirsten Dunst è bella, molto bella). Infine un’auto con due ragazze che si ferma. “Sei Kirsten Dunst?”, chiedono. “Sì, sono io”, risponde l’attrice. “Figo!”, urlano le due ragazze scendendo in fretta dall’auto. La prima si avvicina alla Dunst e comincia a scattare foto con il suo smartphone. E’ il turno dell’altra, e la bionda attrice, un po’ spiazzata, le chiede se non vuole che sia l’amica a fare la fotografia. “No, va bene così”. Poi silenzio, solo il tap degli smartphone interrotto dai “cool!” delle ragazze. “Volete chiedermi qualcosa?”, chiede la Dunst. “Puoi taggarmi?”, fa la prima. “Volevo farti la stessa domanda”, ride l’altra. Poi via, sull’auto, a contare i like sotto la foto postata in rete e a cercare di ricordare in quali film abbia recitato la Dunst. Prima di scandalizzarvi pensando a come i giovani d’oggi siano vuoti, vivano di sola apparenza e non abbiano nulla da dire nella vita reale perché vivono un mondo virtuale provate a pensare ai tempi in cui ai personaggi famosi si chiedeva l’autografo su un pezzo di carta: difficilmente si facevano domande o si restava a chiacchierare con loro. Grazie, complimenti, e poi a casa a incollare l’autografo sul diario o appenderlo in stanza per farlo vedere agli amici suscitando in loro invidia e ammirazione. C’è davvero molta differenza? No, a parte una, sostanziale: nel selfie ci sono anche io, nell’autografo no.

ASPIRATIONAL from Matthew Frost on Vimeo.

 

Qualche giorno fa l’economista comportamentale Dan Ariely ha definito sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: 1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti.

 

Narcisi, generazione allo specchio, esibizionisti. Così frettolosamente etichettati, i millennial sono cresciuti in un mondo profondamente cambiato dalla tecnologia. Per questo non si può analizzare il fenomeno dei selfie senza tenere conto del tessuto su cui poggia. Chi oggi ha dai 30 anni in giù è cresciuto potendo raccontarsi quotidianamente in “un diario generazionale condiviso fatto di post, tweet, mi piace, commenti e foto”, spiega Federico Capeci, autore del libro “Generazione 2.0” (Franco Angeli), fondatore e amministratore delegato di Duepuntozero Research, istituto di ricerche di mercato del gruppo Doxa specializzato nei nuovi media e nell’innovazione. “Per loro è normale parlare di sé in quel modo, e a differenza dei giovani prima di loro, taciturni e solitari, questi ‘parlano’ molto di più. Pure troppo”. La tecnologia poi non solo ha permesso la massima diffusione e condivisione di questi diari ma ha anche favorito nuovi comportamenti, spiega Capeci: “Il selfie come lo intendiamo oggi è nato quando Steve Jobs ha messo sui suoi smartphone la fotocamera frontale: prima non era comune farsi autoscatti da soli con la macchina fotografica”.

 

Oggi è normale, anzi quasi necessario, come nota Stefano Epifani, professore di Social media management alla Sapienza di Roma: “Se parli con i più giovani ti dicono che se una foto te la fa un altro non è la stessa cosa”. Già, i più giovani: parlando di selfie bisogna comunque separare i cosiddetti nativi digitali, nati e cresciuti in un contesto in cui tecnologia e connessione online erano già alla portata di tutti, e gli immigrati digitali, over 35 cresciuti in un mondo analogico diventato digitale quando loro erano già grandi: “Se un adulto si fa un selfie – spiega Capeci – mette in primo piano se stesso, i giovani invece tendono a dare più spazio al contesto”. E’ il passaggio dal narcisismo alla testimonianza, dice Epifani: “Gli antesignani dei selfie erano gli autoscatti in bagno che qualche anno fa i primi blogger mettevano in rete – racconta – C’era anche un hashtag per definirli, #piastrelle, che è poi lo sfondo dei bagni in cui venivano fatti. Il selfie oggi è cambiato, si fa con gli amici in un contesto specifico”. Non è più solo un gesto solitario, e non può essere fatto da una terza persona, perché essere al contempo attori e autori della fotografia ha un valore. “Il selfie dice ‘ehi, siamo qui, siamo noi, attori dello scatto’”, continua Epifani.

 

C’è dunque un desiderio implicito di appartenenza in ogni selfie, la volontà di mostrare noi stessi come parte di qualcosa (o qualcuno) più grande di noi. Per questo, sostiene Federico Capeci, “il selfie è un gesto di comunicazione perfetto, più di un post su Facebook, o un tweet. Un selfie mette insieme nello stesso momento il soggetto, la sua esperienza dell’istante e il contesto. ‘Sono qui, sono felice/triste/arrabbiato/divertito e sta succedendo questo’. Tutto questo in un secondo. E’ una cosa difficile da fare, se non con un racconto complesso”. Il selfie ha quindi una potenza comunicativa enorme, e in più è “universale e immediato. Arriva a tutti e non ha bisogno di spiegazioni”. Anche un giapponese riesce a capire che cosa comunica un italiano.

 

“Un selfie è un indice”, dice Giovanni Maddalena, professore di Storia della filosofia e di Filosofia della comunicazione e del linguaggio all’Università del Molise. “Chi si fa un selfie dice principalmente una cosa: io ci sono. In una società come quella contemporanea, invasa dalle immagini, una fotografia in cui ci sono io è diversa dalle altre. E’ esperienza sempre più comune quella di sentirsi dire da qualcuno a cui facciamo vedere fotografie scattate da noi di paesaggi o monumenti ‘sì, ma tu non ci sei’”. Maddalena fa un esempio: “Se io anche fotografassi la più bella icona russa e la inviassi a un amico per fargliela vedere, il mio scatto non varrebbe molto: online si trovano immagini più nitide e migliori della stessa icona”.

 

Una foto in cui ci sei tu, invece, è per forza diversa, unica. “C’è poi un aspetto legato all’azione – prosegue Maddalena – Per farti un selfie allunghi il braccio e scatti. Apparentemente è un banale autoscatto fatto da una distanza troppo irragionevole per venire bene. Ma questo rende personale non solo l’immagine, ma anche il modo in cui viene scattata. E’ la stessa differenza che corre tra una partita vista in tv e una vista in curva allo stadio: si vede molto meglio dal divano di casa, ma perché uno va allo stadio? Perché è diverso poter dire ‘io ci sono’”. Ma a chi diciamo questo “io ci sono”? Alla nostra rete relazionale, dice Epifani, che sui social network per molti di noi combacia con quella reale, o almeno così pensiamo: “E’ cambiata la percezione della differenza tra sfera pubblica e privata. Chi pubblica un selfie su Facebook lo fa per far vedere ai suoi amici che lui era in un certo posto con determinate persone a fare una certa cosa, non si preoccupa che lo possano vedere anche altri, magari sconosciuti”. Per Giovanni Maddalena a chi condivide un selfie in rete “interessa marginalmente a chi dici ‘io ci sono’. Volendo fare un’analogia, un selfie è come un obelisco. Il filosofo pragmatista Charles S. Peirce faceva notare che di per sé un obelisco non serve a niente, è inutile, eppure tutte le grandi potenze li hanno costruiti e messi nelle piazze. Perché? Per dire al popolo ‘io ci sono’. Un obelisco è un indice”.

 

Io sono importante, sono una persona, qualcuno che vale la pena di essere guardato, ascoltato, e io ve lo faccio vedere. Narcisismo? Indubbiamente, ma quale generazione al mondo è stata priva di vanità? “Un selfie è un grido – dice ancora Maddalena – Un punto esclamativo”. La comunicazione ha un grande potere intrinseco, spiega, “diventa pericolosa quando toglie riflessione. Possiamo dire che un selfie è puro ritmo, come una musica con troppa batteria, ma ha dentro un’esigenza bellissima e drammatica”. Paradossalmente non c’è nulla di più lontano dall’immagine di uno specchio, dice Capeci: “Un selfie è una finestra da cui ci raccontiamo e ci facciamo guardare e che vive della reazione dei commenti, dei like”. Ricerca di accettazione da parte degli altri, di dialogo e contemporaneamente grido personale.

 

[**Video_box_2**]“Un selfie è una boa emotiva – dice Ivo Germano, professore bolognese di Teoria e tecniche dei nuovi media all’Università del Molise – Normalmente è legato agli stati d’animo: sono contento, mi sto divertendo con i miei amici… facciamoci un selfie! Ha a che fare con l’architettura relazionale della rete, è parte della biografia visiva di una persona che si vuole e si può raccontare”. Fugace come l’istante, un selfie comunque non si perderà mai nel mare profondo della rete. “E’ un’àncora visiva – dice ancora Germano – Un urlo personale che permette una relazione di un momento in un mondo di solitudine”. L’urlo di Munch è il selfie perfetto, suggerisce il professore. “E’ bello farsi un selfie, ed è intuitivamente normale farselo, come era normale mandare sms. Serve a far circolare un’idea di te, a dire ‘non mi sentite, però ci sono’. Esistono due tipi di selfie, a mio parere: quello esistenziale, che si può definire con ‘selfie ergo sum’, e quello celebrativo, ‘selfie ergo appaio’, tipico del circuito delle celebrità, che si fotografano alla notte degli Oscar o agli Mtv Music award per far parlare di sé”.

 

C’è la ricerca di un rapporto, dietro a tutto questo, la coscienza che da soli saremmo noi, che abbiamo bisogno di un altro per significare qualcosa. Per questo speriamo che qualcuno veda il nostro selfie, lo commenti, lo condivida, ci metta almeno un like distratto. Per questo i selfie, come detto, stanno diventando di gruppo: ehi, io ci sono, e sono in rapporto con altre persone. Due selfie rischiano però di essere rette parallele, e la condivisione un’interazione incidentale dopo la quale ognuno rimane da solo. Dice ancora Epifani, “siamo in una fase di cambiamento della percezione del concetto di privacy, che peraltro è sempre cambiato nella storia, basti pensare al Re Sole che espletava i suoi bisogni fisiologici in pubblico o alla mancanza di corridoio nelle abitazioni medievali. La privacy come la concepiamo noi è un concetto recente, e adesso viviamo una fase di passaggio: dal diritto a essere lasciati soli a quello della condivisione di tutto. Ma siamo davvero sicuri che sia un male?”.

 

In tutto questo discorso, che fine fa la verità? “Non c’è nulla di vero nel selfie – provoca Capeci – Il mondo del web è autorappresentazione: io vivo una certa cosa in un certo modo e voglio farmi vedere così. Non è per forza un aspetto negativo”. Anche nella vita in carne e ossa, spiega lo studioso, facciamo scelte per farci vedere dagli altri con un certo vestito a seconda delle circostanze, una certa automobile, una certa casa e così via. Il problema nasce quando la rappresentazione di sé si distacca troppo da ciò che noi sentiamo realmente di essere. “Quando mi sento in un modo e mi racconto in un altro, c’è un alto rischio di schiantarsi. Il web amplia la possibilità di autorappresentazione che già la vita quotidiana ci offre”, dice Capeci. “Quando non riesci più a sostenere con gli altri la rappresentazione che hai dato di te, però, il problema diventa patologico. Tutti quanti sul web diamo un’idea di noi che non corrisponde del tutto a come siamo fatti, idea che cambia a secondo del social network che frequentiamo”. Esempio: se uno usa Facebook per stare connesso con la rete di amici più stretti e i famigliari tende a mostrare di più il lato di bravo marito e padre, mentre su Twitter cercherà di sottolineare le sue capacità lavorative. “Se lo scollamento è forte – conclude Capeci – nascono problemi seri”. Succede, soprattutto ai più giovani, quando iniziano a ragionare su se stessi, a porsi domande. Ed ecco che viene voglia di gridare a se stessi e agli amici quell’inconsapevole io ci sono, avendo tutto il mondo connesso come orizzonte, e forse di più. A chi pensiamo mentre scattiamo un selfie? Cosa cerchiamo? Che cosa ci resta? Un urlo di presenza alla ricerca di un rapporto. Imperfetto, potenzialmente grandissimo, certamente ridotto dal mezzo. Io ci sono, voglio esserci per sempre, e stare con qualcuno. Il narcisismo è un’altra cosa.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.