Eugen Drewermann, 74 anni, da nove fuori dalla chiesa cattolica. Oracolo vivente per la galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito

I ribaldi di Melk

Matteo Matzuzzi

L’abate ultra progressista affida gli esercizi spirituali dei monaci a un teologo sconfessato da Ratzinger e spretato da Wojtyla. “La convinzione che Gesù abbia fondato una chiesa è grottesca. Cristo non era né cattolico né protestante”.

Per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno, nove anni fa, aveva salutato più o meno gentilmente la chiesa cattolica. Per sempre. Addio e a mai più arrivederci, aveva detto Eugen Drewermann, prete spretato, sospeso, cacciato e oracolo vivente per tutta quella galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito e dove – magari – si mette perfino in dubbio la parola di Gesù Cristo, cioè dell’unigenito figlio di Dio nato dal Padre prima di tutti i secoli. Tornato ai suoi studi e alle teorie naïf che negli anni Ottanta fecero strabuzzare gli occhi perfino al Joseph Ratzinger prefetto supremo della congregazione per la Dottrina della fede, Drewermann ha fatto nuovamente parlare di sé nella fatata cornice dell’abbazia di Sankt Lambrecht, un punto immerso nel verde dei boschi della Stiria, nell’Austria profonda e silenziosa. Lì il prete non più prete ha tenuto dal 29 giugno al 2 luglio scorso gli esercizi spirituali a due comunità di monaci benedettini, quella locale e quella ben più celebre di Melk, resa immortale nella letteratura dall’Adso protagonista-narratore del “Nome della Rosa”.

 

E’ stato l’abate in persona, l’inflessibile dom Georg Wilfinger, riconfermato dal Capitolo pochi mesi fa per l’ennesimo mandato, a invitare Drewermann perché guidasse le meditazioni della comunità. E pazienza se il suo profilo non sia proprio in linea con l’ortodossia cattolica, se per lui “la convinzione che Gesù abbia fondato una chiesa è grottesca, visto che Cristo non era né cattolico né protestante”. Perfino qualche monaco, tra una lectio divina e una compieta, ha osato far presente al padre abate che forse era meglio lasciar perdere, che non era il caso di invitare a predicare un tipo con idee siffatte. Suppliche messe a tacere in modo tutt’altro che bonario, raccontano per quanto possono benedettini nostalgici degli antichi fasti della millenaria Melk, che con i suoi stucchi e i suoi ori, con i suoi canti in gregoriano innalzati tra le volute d’incenso suscitava impressione a ogni visitatore ricco o povero, portato a contemplare in tutta la sua grandezza il mistero e la gloria divina. Niente da fare, ha risposto Wilfinger, che qualcuno tra i suoi confratelli reputa un po’ troppo mondano per guidare un’istituzione così importante come l’antica abbazia della Bassa Austria fondata nel 1089 dal margravio Leopoldo II: semel abbas semper abbas, un abate è per sempre. Lo dice la Regola, quella di san Benedetto. La croce dorata – che lui rifiuta, preferendone una in pesante ferro battuto – ce l’ho solo io e qui comando io. E così è stato.

 

Con dom Wilfinger è meglio non discutere, si accalora subito e fa valere l’autorità. In passato s’è messo contro il vescovo di St. Pölten e perfino contro l’eminentissimo principe Christoph von Schönborn, arcivescovo della Vienna cattolica che vende le chiese ormai vuote agli ortodossi e che non sa come tirare avanti. Colpevoli, tutti, di essere troppo fedeli al Magistero romano, di limitare la libertà individuale dei sacerdoti e di essere incapaci di trovare la propria via. Pericolosi reazionari, dunque, che si permettono di giudicare quel povero monaco di Melk che vivrebbe – dicono i bene informati – con una compagna nelle celle dell’abbazia, con tanto di intima alcova riservata. Non è un caso che il padre abate sia un idolo per tutto quel mondo – confuso ma di dimensioni non irrilevanti – che pressa Roma non solo per aggiornare allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, l’insegnamento cattolico in fatto di morale, bensì per ribaltarlo, cambiando la dottrina a seconda delle comprensibili mutate esigenze della contemporaneità.

 

L’imbarazzo tra la comunità ha però continuato a serpeggiare, tanto che qualcuno ha fatto sapere all’esterno che lì dentro a sermoneggiare c’era proprio Drewermann. E l’abbazia prima negava, poi si trincerava dietro il rituale no comment e alla fine confermava. Con orgoglio, smentendo però che all’ospite dell’abate fosse stata corrisposta la cifra di ottomila euro per le quattro giornate di esercizi spirituali: pagate solo le spese di viaggio, assicurano a Melk. Indignato per le polemiche s’è detto padre Jeremia Eisenbauer, tra le guest star della Pfarrerinitiative, l’appello alla disobbedienza da tempo lanciato da Helmut Schüller e da qualche centinaio di parroci austriaci dissidenti e disobbedienti, desiderosi di musealizzare il celibato sacerdotale come anticaglia superata, al pari dei flabelli, della tiara papale e della sedia gestatoria. Eisenbauer, che con l’abate di Melk condivide una più che originale linea pastorale, ha confermato tutto, dal principio alla fine, dall’alfa all’omega: Drewermann è stato a Melk, ha predicato ai monaci, ha illustrato i suoi pensieri. Qualche fedele s’è detto indignato? Il vescovo è stato allertato e messo sul chi va là? La scure della Roma-nuova-Babilonia è già pronta a tagliare teste? E chi se ne importa: “Non ci fanno paura, non siamo una scuola materna e non prendiamo ordini da nessuno; nessuno ci può dire chi invitare e chi no”, ha chiarito padre Jeremia ai media tedeschi. E poi, ha detto ancora, anche “i monaci più anziani, inizialmente scettici, alla fine erano eccitati” per l’esperienza vissuta con Drewermann.

 

Qualcuno, chi può dirlo, forse s’è pure convertito all’idea che la verginità di Maria, definita per l’appunto Vergine e Madre di Dio, sia una favola, un mito orientale (forse egizio) da cui avrebbero preso spunto Luca e Matteo per i loro Vangeli. Dopotutto, la psicologia del profondo junghiana – vera ispirazione per l’ospite dell’abate Wilfinger – è sensibile a quanto teorizzavano i teosofi ottocenteschi, e cioè l’unità tra i miti antichi e i racconti cristiani, da cui dipenderebbero. Che il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria sia verità di fede, poco importa, a quanto pare. “Nelle tradizioni dei popoli si racconta continuamente di nascite verginali e di figli di Dio che vengono dal Cielo”, osservava Drewermann tempo fa. Insomma, questa Maria immacolata e sempre vergine alla fine è diventata una sorta di mito, idealizzata nei suoi manti dorati.

 

Se padre Jeremia, rimanda al mittente le critiche, qualche cattolico austriaco ancora non ammorbato dalle iniziative dei preti ribelli pronti alle nozze ha però preso carta e penna e ha scritto una lettera di protesta con un unico destinatario: il Palazzo del Sant’Uffizio, e in particolare l’ufficio dove siede e lavora il cardinale prefetto Gerhard Ludwig Müller, colui che il teologo Hans Küng definì una “disgrazia” non appena dal Vaticano fecero sapere al mondo che Benedetto XVI aveva scelto il vescovo di Ratisbona come successore dell’americano William Levada. Una visita a Melk, forse, sarebbe opportuna, scrivono i fedeli al cardinale prefetto. Anche perché, si lascia scappare qualche monaco, il professor Drewermann avrebbe anche celebrato la messa. Nonostante tutte le reprimende, gli avvertimenti e le condanne che gli pendono sulla testa. Nonostante, soprattutto, lui prete non lo sia più. Nel 1991 fu privato, dall’allora vescovo di Paderborn, della licenza per l’insegnamento di Teologia presso il locale seminario (incarico che deteneva dal 1979). L’anno dopo fu sospeso a divinis, quindi ridotto allo stato laicale. Già nel 1986 le tesi dell’allora padre Drewermann – che è anche psicoterapeuta assai apprezzato nel mondo mitteleuropeo, dove ha pubblicato una settantina di libri – furono portate all’attenzione del cardinale Ratzinger, che dopo aver letto la summa del pensiero del professore psicoterapeuta, scrisse preoccupato al vescovo di Paderborn, il futuro cardinale Johannes Joachim Degenhardt, chiedendogli di indagare.

 

In effetti, Ratzinger aveva più d’un motivo per interessarsi al caso-Drewermann, visto che già allora il sacerdote psicoterapeuta lanciava strali contro la chiesa cattolica incapace – a suo dire – di entrare in contatto con il disagio spirituale delle persone: “Per me sono centrali anche il mantenimento della pace, la difesa dell’ambiente e degli animali. Il pacifismo, il vegetarianesimo e una relativizzazione dei diritti dell’Homo sapiens rispetto alla sopravvivenza degli animali non sono mai stati presi sul serio dalla chiesa”, avrebbe confermato molti anni dopo quel primo confronto ideale con il futuro Benedetto XVI.

 

A tagliare irrimediabilmente il legame tra lo psicoterapeuta e Roma fu la sua opera più nota, “Funzionari di Dio: psicogramma di un ideale” seicentosessantaquattro pagine che si ripromettono di far luce sulla formazione e le funzioni sacerdotali alla luce della psicologia del profondo. La tesi è che chi va in Seminario lo fa per fuggire la propria sessualità, cercando rifugio nell’odiato apparato-chiesa, ridotto a una sorta di nido. Pieno d’insidie però, visto che determinerebbe nei sacerdoti novelli una nevrosi dovuta allo studio indefesso matto e disperatissimo degli elementi fondamentali della dottrina cattolica. Tutta roba che sarebbe da eliminare, scrive l’autore.

 

“E’ grave – diceva qualche anno fa in un’intervista al periodico tedesco Publik-Forum e ripresa a suo tempo dall’agenzia Adista – la schizofrenia che il dogma ecclesiale provoca consapevolmente”, e cioè “che l’interpretazione della Bibbia e dei contenuti della fede cristiana non deve essere fatta a livello simbolico, ma soltanto ideologico, nel senso di dogmi oggettivi o fatti storici”. E poi, spiegava ancora Drewermann, fa ridere e sconcerta che “l’illuminismo filosofico del XVIII secolo” non abbia ancora raggiunto Roma, il Vaticano, la chiesa cattolica. A dire il vero, non non l’ha raggiunto neppure l’illuminismo psicologico.

 

Basti guardare al fenomeno degli esorcismi, ai moniti sulla presenza del male, del Diavolo tentatore, principe di questo mondo e così spesso citato anche dal Papa Francesco. Superstizioni da Medioevo e nulla più: “Solo sotto il pontificato di Givanni Paolo II, in Vaticano hanno avuto luogo trentamila esorcismi. Come si può leggere il messaggio di Gesù in modo terapeutico, se la psicologia delle persone diventa una demonologia della carne? Così non si rende giustizia alla Bibbia e alla fede”. Bibbia che, tra l’altro, in nome della esegesi moderna, sarebbe più o meno un insieme di simboli anziché un racconto storico. Alla fine, osserva Drewermann, “non rimane che una scelta: o credere in modo ingenuo e conforme al sistema, o scivolare in modo illuminato nell’incredulità”. Il fatto è che la chiesa romana altro non vuole che “la superstizione, l’alienazione, l’arrendevolezza, la dipendenza”. Per meglio manipolare i fedeli, gli adepti, naturalmente, visto che “le richieste di Gesù si trovano in un rapporto grottesco rispetto al comportamento della chiesa romana”. E poi, “è un errore totale delegare la soggettività, che appartiene alla fede, a determinate formule e riti della chiesa”.

 

Una via di salvezza per il cattolicesimo ci sarebbe, però. Basterebbe prendere spunto da Lutero: “Per diventare cristiana, Roma deve imparare ad assimilare le richieste della Riforma”. Concilii, sinodi, assemblee lasciano il tempo che trovano, spiega Drewermann: “C’è stata solo una Riforma, quella del 1517. Tre anni dopo, il riformatore Lutero si recò alla dieta di Worms e dichiarò: ‘Io sto qui come persona, e dico quello che vedo, penso, sento e credo’. Punto! Così iniziano le riforme. Non organizzando maggioranze. Non vi è alcun cristianesimo senza la libertà della vita individuale! Il mio problema è che nessuno può aspettare che un’autorità romana gli consenta o meno di vivere la sua vita”. Di mezzo, ça va sans dire, la questione del celibato sacerdotale: “Che uno si debba separare o no o che sposi un’altra donna non può dipendere dalla capacità di comprensione di Roma. Deve saperlo da sé”. Si comprende bene, allora, perché i primi a scendere in piazza contro la sua sospensione a divinis e conseguente riduzione allo stato laicale siano stati gli aderenti al movimento transnazionale progressista “Noi siamo chiesa”, capeggiato da Martha Heizer, la professoressa in pensione di Innsbruck recentemente scomunicata assieme al marito perché rea d’aver celebrato messa nel proprio salotto, tra credenze e divani, davanti a un pubblico di compaesani commosso dall’evento. Per difendersi dalla scomunica, Heizer ha fatto sapere che alle sue messe partecipava pure il vecchio parroco. Naturalmente, essendo defunto, non può confermarlo.

 

Follie, direbbe il Drewermann che detesta i dogmi e dice d’avere “comprensione per chi fa la comunione anche se ufficialmente non potrebbe”. Lui però non ha ceduto, non s’è accostato al sacramento dopo le punizioni romane. Non per intima convinzione, sia chiaro, ma solo perché “ero un personaggio pubblico di questa chiesa” e “in qualche modo dovevo prendere sul serio questo sistema chiesa”. E l’addio al cattolicesimo come regalo che s’è fatto per il sessantacinquesimo compleanno? “Quella è stata una notifica di pensionamento. Per ricevere la mia miserabile pensione, ho dovuto sottoscrivere una dichiarazione, in cui affermavo che non avrei mai più esercitato il mio sacerdozio. E così io adesso non dovrò mai più rappresentare ciò in cui non mi sento più rappresentato. Vorrei questa libertà per ciascuno”. Anche la libertà, magari, di valutare l’emigrazione in altri lidi confessionali più consoni alle proprie inclinazioni: “Gli evangelici? Affermano molte cose che per me sono essenziali, a cominciare dal riconoscimento dell’assoluta necessità della grazia per tutte le questioni di morale e giustizia”. Alla fine, però, neanche lì Drewermann ha trovato l’habitat ideale per le sue ricerche e meditazioni: “E’ semplice essere membri di una istituzione, ma diventare cristiani è qualcosa d’altro”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.