Ma che pensiero unico, le università dovrebbero essere litigiose

Redazione

C’è stato un tempo in cui chi cercava un dibattito intellettuale non si rifugiava nella politica ma nelle università. I retrobottega della politica pullulavano di slogan e portaborse, le università producevano discussioni istruite. Ma quando gli studenti hanno iniziato negli anni 60 a occupare le proprietà delle università come gli sgherri dei regimi che l’America stava combattendo all’estero, i ruoli si sono invertiti. Il dibattito oggi è protetto solo nella politica. Nelle università, prevalgono i furfanti. Gli assalti alla libertà intellettuale e politica sono su tutti i giornali.

di Ruth Wisse

    C’è stato un tempo in cui chi cercava un dibattito intellettuale non si rifugiava nella politica ma nelle università. I retrobottega della politica pullulavano di slogan e portaborse, le università producevano discussioni istruite. Ma quando gli studenti hanno iniziato negli anni 60 a occupare le proprietà delle università come gli sgherri dei regimi che l’America stava combattendo all’estero, i ruoli si sono invertiti. Il dibattito oggi è protetto solo nella politica. Nelle università, prevalgono i furfanti. Gli assalti alla libertà intellettuale e politica sono su tutti i giornali. La pressione dei docenti istigati dai gruppi islamici ha indotto la Brandeis University a negare, il mese scorso, un titolo onorario ad Ayaan Hirsi Ali, sostenitrice dei diritti delle donne sotto l’islam. E’ un déjà vu del 1994, quando i docenti della Brandeis chiesero di annullare il titolo onorario a Jeane Kirkpatrick, ex ambasciatore americano all’Onu. Alla cricca dei docenti si sono uniti gruppi di studenti ignoranti (per usare un eufemismo) per promuovere i valori della repressione su quelli della democrazia liberale.

    I nemici della libertà di parola ottengono molte vittorie: al commissario della polizia di New York, Raymond Kelly, è stato impedito di parlare alla Brown University in novembre; una lezione di Charles Murray è stata cancellata dalla Azusa Pacific University in aprile; Condoleezza Rice, l’ex segretario di stato dell’Amministrazione di George W. Bush, è stata costretta questo mese a rifiutare l’invito della Rutgers University a parlare alla cerimonia di laurea. L’occasione più dolorosa per me è stata alcuni anni fa, quando la Committee on Degrees in Social Studies, in occasione del 50° anniversario, accettò una donazione in onore del suo ex coordinatore Martin Peretz, il cui contributo all’università comprende la cattedra di Yiddish che ho il privilegio di detenere. I suoi nemici nel campus organizzarono un “party contro Marty” che lo obbligò a sopportare gli insulti di studenti che lo accusavano di avere offeso l’islam, mentre gli altri iniziarono a prendere le distanze. Le università non hanno contrastato quanti vogliono soffocare il dibattito, anzi li hanno incoraggiati. L’impegno nei confronti della “diversity” provoca la sostituzione dell’ideale della parità di trattamento con quello della garanzia delle preferenze di gruppo nelle assunzioni e nell’offerta curricolare. Alle donne e ai membri delle minoranze visibili è dato un handicap (come nel golf). I corsi sono studiati per inculcare negli studenti il messaggio per cui, per dirla come uno studente che scrive sull’Huffington Post, “ci sono dannose diseguaglianze strutturali di classe, razza, sesso, orientamento sessuale e identità di genere che persistono negli Stati Uniti”. In troppi campus, come in uno specchio distorcente, l’impegno ideologico verso la diversità ha provocato l’opposto: un’egemonia ideologica che è molto più dannosa per il pensiero critico delle supposte disuguaglianze strutturali che l’ingegneria sociale si propone di correggere.
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    Nel 1995 ho partecipato a un dibattito universitario sull’Affirmative action che ha attirato così tanto l’interesse degli studenti che fu spostato nell’auditorium più grande di Harvard. Quest’anno mi è stato chiesto da un gruppo di studenti di partecipare a un incontro sul femminismo. Benché non sia molto interessata al tema, ho accettato e aspettato la conferma. Sono seguite email di scuse per il ritardo, e infine un messaggio di giustificazione in cui si diceva che non era stato possibile trovare nessuno per il fronte pro femminista. Pare che uno tra gli interpellati abbia detto: “Che c’è da discutere?”. Non c’è da stupirsi che chi non ammette che qualcuno possa opporsi alla sua idea poi si senta in dovere di zittire gli oratori che lo contraddicono. Visto che gli studenti conservatori non occupano gli edifici o sommergono gli altri urlando, gli insegnanti si sentono liberi di schernire i conservatori e gli amministratori non si curano quando i loro manifesti sono staccati dai muri. Ma questi studenti meritano incoraggiamento dall’esterno.

    Finora la cultura universitaria non è stata capace di rompere il bipartitismo, ma la sua influenza sull’Amministrazione che governa a Washington dà qualche indizio su quello che ci aspetta se i i democratici con la “d” minuscola – che di questi tempi sono soprattutto conservatori – non iniziano a riprendersi i campus. Con mezzi pazienti ma tenaci devono aiutare gli studenti a far parlare oratori, a organizzare dibattiti, a richiedere corsi e a usare tutta la potenza di fuoco intellettuale di cui dispongono in favore dell’eccezionalismo americano, dei vantaggi morali di un’economia libera e della necessità di proteggere la democrazia da nemici che non abbiamo paura di nominare. In breve, è necessario che l’università diventi litigiosa quanto il Congresso. In Nigeria, gli islamisti rapiscono centinaia di ragazze accusate di voler studiare. Qui le classi istruite negano un titolo onorario a una coraggiosa donna musulmana che ha combattuto per portare queste atrocità alla luce. La battaglia per la libertà è universale, le nostre università dovrebbero stare dalla sua parte.

    di Ruth Wisse, Professoressa di Yiddish e Letteratura comparata all’Università di Harvard.
    Copyright Wall Street Journal
    per gentile concessione
    di MF/Milano Finanza