Euro e banche, disamour

Stroncatura autorevole del riposizionamento di Tremonti

Redazione

Non si giudica un libro dalla copertina, e nemmeno dall’introduzione. Avendo io solo la disponibilità di quest’ultima, ci proverò, ma i miei commenti vanno presi con tutte le cautele del caso. L’introduzione del libro dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, anticipata ieri dal Foglio, fa presagire un “saggio postmoderno”, in questo non molto dissimile dai precedenti di Tremonti.

di Alberto Bisin

Leggi Tremonti Per i popoli, per il populismo, contro gli eurocrati - Festa Un leader tra intelligenza (molta) e politica (appena un po’ meno)

    Non si giudica un libro dalla copertina, e nemmeno dall’introduzione. Avendo io solo la disponibilità di quest’ultima, ci proverò, ma i miei commenti vanno presi con tutte le cautele del caso. L’introduzione del libro dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, anticipata ieri dal Foglio, fa presagire un “saggio postmoderno”, in questo non molto dissimile dai precedenti di Tremonti. Il saggio postmoderno, molto comune nei paesi anglosassoni soprattutto tra le discipline umanistiche, si caratterizza per l’uso copioso di citazioni, riferimenti storici, aggettivazione leziosa, frasi dal significato multiforme quando non misterioso… il tutto per coprire una sostanziale debolezza argomentativa e la carenza di dati a suo supporto, con la presunzione di grande profondità intellettuale.

    Il punto di domanda dopo il titolo (provvisorio), “Populismo?”, manifesta bene tutto questo: una misteriosa ambiguità formale a coprire la sostanza. Se mi posso permettere, visto che il titolo è provvisorio, suggerirei “Populismi?”, ancora più ambiguo. A evidenza di queste mie affermazioni, noto che nelle poche pagine dell’Introduzione sono citati Goethe, l’Inno di Mameli, Benedetto Croce, Metternich, il gesuita Naphta nella “Montagna Incantata”, Tolomeo e Copernico, l’Internazionale e Bandiera rossa, Huxley di “Brave New World”, Malthus e Heine. I riferimenti storici, appena accennati, sono al ricorso agli eserciti stranieri nell’Italia del ’500, allo Statuto Albertino del 1848, alla Commedia dell’Arte del ’600, alla Repubblica di Weimar, alla Bolla della Louisiana dopo la scoperta delle Americhe, alla Grecia classica, alla Roma imperiale, a varie rivoluzioni industriali (elettricità, ferrovie, “delle macchine”), alla Rivoluzione francese, alla Destra storica del dopo unità in Italia, ai Guelfi e Ghibellini, e a Babilonia e Gerusalemme. E poi il latinorum, che non manca mai in un saggio postmoderno in Italia, il dictum illuminato, il governo sequitur, la democrazia in experimentum… Per non parlare dell’inglese: la “duration del governo” è il mio preferito, che fa molto Adriano Celentano.
    Molto difficile quindi, in questa foresta, identificare delle idee o argomentazioni che possano essere discusse, su cui si possa argomentare contro o a favore. Che dire di frasi come “nel dopoguerra non c’erano i soldi, ma c’era la vita”; o, “una volta si falliva per i debiti, oggi si fallisce per i crediti”? Che dire di un saggio di economia e politica in cui l’autore, per altro tributarista di fama, finge di non rendersi conto che a ogni credito corrisponde un debito e viceversa? Di un acuto politico che dichiara “serve dunque, oltre ad una legge elettorale, anche qualcosa di più di una legge elettorale: servono gli elettori!”, con tanto di punto esclamativo.

    Ma ci voglio provare ugualmente a farmi strada tra la forma del saggio per trovare la sostanza. E la sostanza mi pare questa: I) una difesa del proprio operato fino al 2011 e una critica di quello della sinistra prima e dei governi tecnici e di alleanza nazionale dopo; II) una critica della globalizzazione, soprattutto della finanza, ma anche della tecnologia digitale; III) un riavvicinamento a politiche liberiste per il nostro paese.

    Se la mia lettura è corretta, sui tre punti che ho identificato si può cominciare a discutere. Riguardo all’analisi dell’operato dei governi della Seconda Repubblica, gli argomenti addotti nell’introduzione sono a mio parere solidi nella critica all’operato dei governi di sinistra dopo il ’94 (ad esempio per quanto riguarda la riforma del Titolo V della Costituzione). Sono molto deboli invece quelli utilizzati per l’autodifesa. La manovra economica di Tremonti, nell’estate del 2011, che caricava 2 miliardi al 2011 e 40 al futuro, un 2012 e un 2013 in cui si pensava avrebbe governato la sinistra, è stata una operazione incompetente, arrogante e irresponsabile che ha affossato quel poco di credibilità che era rimasta al nostro paese. Nascondere questo significa affidarsi a un complottismo, questo sì populista, che Tremonti cavalca ampiamente nell’introduzione al libro.

    La critica alla finanza, poi, è un vecchio cavallo di battaglia di Giulio Tremonti. Una analisi critica approfondita del ruolo della finanza e della politica nella crisi (del 2008 negli Stati Uniti e del 2011 in Europa) sarebbe auspicabile. Un’opinione ben articolata di Tremonti a questo proposito sarebbe molto interessante. Purtroppo però nell’introduzione al libro troviamo solo riferimenti alla “repubblica internazionale del denaro” e ad altre non ben definite “repubbliche” (Google, Amazon, Yahoo… forse?) che “tracciano le loro strade, sono mosse dai loro motori, già battono la loro prima moneta, costruiscono le loro comunità sociali”, conditi con affermazioni tipo “nella meccanica del divenire sono le funzioni che fanno gli organi”.

    Infine, il ritorno di Tremonti al liberismo in economia, per quanto un po’ in contraddizione con la critica alla globalizzazione, è godibilissimo: dal Colbertismo e priorità della politica alla Curva di Laffer, libera impresa in libero stato, patrimoniale stupida e suicida, e via discorrendo. Attendo il resto del libro per meglio comprendere dove si ferma il riposizionamento politico di Tremonti.

    di Alberto Bisin (Professore di Economia alla New York University)

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