La Grande Guerra di Grillo

Mario Sechi

L’altra mattina passeggiavo in piazza della Repubblica con Pietrangelo Buttafuoco, si parlava con ilarità di varia umanità quando, improvviso, arriva un colpo di durlindana: “Bisogna salvare il Novecento da Grillo”. Sorrido, l’antico toscano s’annuvola e ribatto: “Sto leggendo parecchi libri sul 1914, i colloqui di pace di Parigi del 1919, la presa del potere di Hitler, la Seconda guerra mondiale”. Il Buttafuoco si fa lucente e m’interroga: perché? “Penso che gran parte dei problemi di oggi vengano da quel tempo remoto. Grillo compreso”.

    L’altra mattina passeggiavo in piazza della Repubblica con Pietrangelo Buttafuoco, si parlava con ilarità di varia umanità quando, improvviso, arriva un colpo di durlindana: “Bisogna salvare il Novecento da Grillo”. Sorrido, l’antico toscano s’annuvola e ribatto: “Sto leggendo parecchi libri sul 1914, i colloqui di pace di Parigi del 1919, la presa del potere di Hitler, la Seconda guerra mondiale”. Il Buttafuoco si fa lucente e m’interroga: perché? “Penso che gran parte dei problemi di oggi vengano da quel tempo remoto. Grillo compreso”. Ma Pietrangelo è già da un’altra parte della trincea, la discussione storica resta sospesa in aria come un bengala. Quel non detto mi richiama con urgenza quando, rientrato a casa, leggo l’Elefantino sul comico in politica: “E’ il Führerprinzip incarnato, comanda senza esserci, è monolitico e unico e assente, si sente il rilascio di una certa puzza mistica della cattiva politica di sempre”. Ecco, il Novecento non è più salvo, Ferrara quel Führerprinzip impresso sul Foglio l’ha meditato, è la storia che comincia a dare una forma leggibile alle molte ombre che s’agitano sul palcoscenico del presente. C’è qualcosa nell’aria.

    Premonizioni. Max Hastings, autore dello splendido “Catastrophe 1914, Europe goes to war”, evoca le pagine dello scrittore austriaco Carlo Von Lang che all’inizio del 1914 scrive: “C’è una sensazione che gli eventi siano nell’aria, tutto ciò che è imprevedibile nella tempistica. Forse vedremo parecchi anni di pace, ma è altrettanto possibile che durante la notte qualche tremendo sconvolgimento accada”. E’ l’indicibile, il non prevedibile che emerge dall’inchiostro.

    1914, 28 giugno, giorno di san Vito. Un secolo fa, una sparatoria a Sarajevo apre il cancello della Grande Guerra. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria e Ungheria, e di sua moglie Sofia, segna la strada del massacro dell’Europa. Nessuno immaginava quel che sarebbe accaduto, nessuno poteva vedere allora la montagna di corpi crivellati, fatti a brani, durante la sola battaglia della Somme: 650 mila tra gli alleati e 450 mila tra i tedeschi. Generazioni perdute in trincea. E’ un centenario che irradia la sua lezione di errori e orrori sui nostri giorni confusi. Tutto questo ha molto a che fare con l’Europa e il disordine mondiale del presente. La Grande Guerra nacque dalla competizione tra nazioni in cerca di spazi. Fu la catastrofe. Joseph Nye, presidente del National Intelligence Council, ricorda che “tre imperi furono distrutti in Europa: Germania, Austria-Ungheria e Russia. Il quarto crollo fu la fine del dominio ottomano. Dopo la guerra, Stati Uniti e Giappone emersero come grandi potenze. La guerra inoltre diede inizio alla rivoluzione bolscevica del 1917, preparò la via al fascismo, intensificò e allargò le battaglie ideologiche che rovinarono il ventesimo secolo”.

    C’era qualcosa nell’aria. Lo sbriciolamento del vecchio mondo che la conferenza di pace di Parigi del 1919 non seppe sostituire con qualcosa di giusto e duraturo. Anche allora vi furono i presagi. Quelli di John Maynard Keynes, poi affidati a uno scritto intitolato “Le mie prime convinzioni”, pubblicato in Italia da Adelphi. Keynes seguiva le trattative per il Tesoro britannico, la conferenza fu un disastro fin dalle prime battute, gli alleati pensavano a scaricare tutti gli oneri sui tedeschi. Idea sciagurata. Ecco l’estratto di un rapporto di Keynes al cancelliere dello  Scacchiere: “Gli americani hanno proposto che si riversino sulla Germania i grandi stock di pancetta di bassa qualità in nostro possesso, e li si rimpiazzi con stock più freschi e vendibili. Dal punto di vista alimentare sarebbe chiamato un buon affare per noi… La situazione è curiosa. L’embargo nei confronti dei paesi neutrali sta per essere revocato e la Germania potrà presto rifornirsi di grassi su scala molto generosa. E’ necessario sconfiggere il bolscevismo e dare il via a una nuova èra. Al Supremo consiglio di guerra il presidente Wilson è stato molto eloquente circa la necessità di un’azione tempestiva in linea con questi principi. Ma, in realtà, a ispirare le sue parole sono le abbondanti scorte di maiale, da scaricare a ogni costo su qualcuno, nemici o alleati che siano. I sogni di Hoover pullulano di maiali, ed egli si dichiara pronto a tutto pur di scacciare l’incubo”. Polvere e macerie. Crisi e disoccupazione. Fame. Egoismo e miopia politica. Nel tentativo di far pagare ai tedeschi la crisi degli Anni Venti, francesi, americani e inglesi, persero di vista il loro vero scopo: la ricostruzione del Vecchio Continente piagato dai conflitti. Dopo la trincea e i cannoni serviva un nuovo umanesimo. Ma l’obiettivo della politica passò dalla pace alla pancetta made in Usa, al resto ci pensò la revanche dei francesi, il pragmatismo grossolano degli inglesi, le piccole rivendicazioni territoriali di paesi come l’Italia. Fu naturale per la Germania consegnarsi nel giro di qualche anno nelle mani di Adolf Hitler.

    Eccolo, il Führerprinzip, metafora di un potere che galoppa come una Valchiria wagneriana tra le nubi della crisi. I tempi della storia sono lunghi, occorre una grande saggezza per decrittarne i segnali. Gli accordi di Parigi ebbero effetti devastanti. La Germania cominciò a stampare moneta, la tassazione non fu sufficiente per liquidare le riparazioni di guerra, i governi non volevano essere accusati di aumentare la pressione fiscale per “pagare la Francia” e il risultato fu un’inflazione stellare e una disoccupazione titanica. Richard J. Evans nel libro “Third Reich in Power” offre ai lettori un’incredibile serie da decollo verticale: “Nel 1913 il dollaro valeva quattro marchi; alla fine del 1919 ne valeva 47; nel luglio del 1922, erano 493; nel dicembre 1922, erano 7 mila; nel luglio del 1923 un dollaro americano costava 353 mila marchi; in agosto quattro milioni e mezzo di marchi; in ottobre oltre 25 milioni di marchi; in dicembre quattro miliardi, un quattro seguito da dodici zeri”. La Germania è al collasso. Mentre la crisi incide la mente e il cuore dei tedeschi, a Monaco un giovane austriaco naturalizzato tedesco diventa leader del piccolo Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori e l’8 novembre del 1923 tenta di rovesciare il governo della Baviera per poi marciare su Berlino. Il putsch di Monaco fallisce. Adolf Hitler viene arrestato e condannato a cinque anni di prigione. Ne esce dopo soli nove mesi, perdonato, considerato innocuo. “Rieducato” dal carcere. Illuminante l’articolo del New York Times del 20 dicembre, giorno del rilascio di Hitler: “Il suo comportamento durante la detenzione ha convinto le autorità che lui, come il suo movimento politico, non sia più da temere. Si pensa che si ritirerà a vita privata e ritornerà in Austria, suo paese di nascita”. Stop. La crisi fa il giro del mondo, la Borsa di Wall Street nel 1929 crolla. E’ un anno chiave della storia, così lo presenta John K. Galbraith nelle prime righe de “Il Grande crollo”: “Certi anni, come certi poeti e uomini politici e certe belle donne, si distinguono nettamente per fama dai loro simili, il 1929 fu evidentemente un anno del genere. Come il 1066, il 1776 e il 1914, è un anno che tutti ricordano. Uno è entrato all’università prima del 1929, si è sposato dopo il 1929 o non era ancora nato nel 1929, il che testimonia una totale innocenza. Il riferimento al 1929 è diventato un’espressione abbreviata per indicare gli avvenimenti di quell’autunno. Per un decennio, ogni volta che gli americani sono stati afflitti dal dubbio circa la durata della loro situazione di prosperità, si sono chiesti: ‘Verrà un altro 1929?’”.

    Un altro 1929 è arrivato nel 2008, gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: dopo cinque anni di crisi e diciotto mesi consecutivi di recessione, venti milioni di disoccupati e una fiducia nell’Unione al lumicino, l’Europa fa i conti con una zoppicante ripresa, alta disoccupazione, lo spettro della deflazione alle porte e un prossimo turno elettorale che s’annuncia dominato dalla rivolta contro l’austerità di bilancio. E’ l’ambiente ideale per i demagoghi, gli estremisti e gli avventurieri. In questo scenario, con un centenario alle porte, la domanda che circola tra gli storici e gli esperti della politica internazionale è la seguente: Verrà un altro 1914? Il National Interest affida a Graham Allison, direttore della Harvard Kennedy School, la lettura del domani. E lo spazio dell’incidente si sposta, da occidente a oriente, dall’Europa felix al mar della Cina. Il confronto è quello tra il Giappone e la Cina: “Per i giapponesi gli ultimi vent’anni sono stati persi nella stagnazione economica e nel declino nazionale, anni nei quali la Cina li ha sostituiti come seconda economia nel mondo. Il primo ministro Abe è salito al potere determinato sul piano interno a far riprendere la crescita economica e ristabilire il rispetto per il Giappone all’estero”. Questo non significa che la guerra è inevitabile, tutt’altro, è lontana, ma la cautela, vista la lezione della storia, è necessaria. E’ stato Shinzo Abe a Davos a ricordare che “oggi Cina e Giappone sono come Germania e Regno Unito nel 1914”. Clash.

    Rieccolo, l’anno della Grande Guerra, allungare la sua ombra, ammonire, far risuonare i cannoni della storia maestra troppo spesso inascoltata. Sono gli elementi di un certo clima, la ricorrenza del “c’è qualcosa nell’aria” i cui passi sul marciapiede della contemporaneità sono avvertiti da pochi. E’ un indefinito malessere dell’anima, la cattiva politica, che si diffonde come una radiazione nucleare, abbraccia, vellutata e suadente, i grandi e piccoli fatti, il day by day e poi diventa longue durée.

    Sono i quadri di un’esposizione, ma senza il pianoforte di Mussorgsky che li tiene insieme. L’armonia è spezzata. L’ordine del Novecento in frantumi, il ventennio italiano senza pace, l’incompiuta transizione in terrazza, al fresco, l’armistizio impossibile, il Risiko globale che va in orbita e la libreria locale che a Forcolandia deve chiudere perché altrimenti “qui appicchiamo il fuoco”, il grande summit internazionale a Davos dove la crisi si consuma con un fuoripista sulla neve, una sniffata di zolfo e puzza di libri che bruciano in un camino anonimo sullo stream di Twitter, il turpiloquio e la gazzarra da talk show che annichiliscono il dibattito parlamentare, lo stupro verbale e la lista di proscrizione virtuale, l’hard core elevato a retorica quotidiana e dileggio del “diverso”, l’insulto fisiognomico, la battaglia di lingua e coltello contro le donne, il culto mistico della rete per il capo che appare e scompare, la carneficina online come sola igiene del mondo, la paranoia del capitale sempre corrotto, la finanza come rappresentazione dell’irrealtà, le scie chimiche come soluzione iniziale e finale, il complottismo come spiegazione deterministica della storia. Hitler aveva le sue camicie brune, la contemporaneità in pixel e bit di Beppe Grillo ha la sua polizia virtuale, gli squadristi in cloud, la sua disinformazione in streaming e il suo dottor Stranamore della propaganda web, Gianroberto Casaleggio.

    La smaterializzazione del presente, la sua riduzione a immagine e randello touch è un’arma letale in un mondo che nella realtà della fabbrica, del lavoro, della busta paga con mutuo incorporato, del consumo, del mi sveglio e oggi cosa faccio, si guarda allo specchio e conta le teste e le braccia di 200 milioni di disoccupati. Sono come le baionette nelle trincee del 1914, file di disoccupati che si arruolano e indossano la camicia bruna. La corruzione del linguaggio, la disarticolazione del senso, lo spaesamento del contesto, la dissoluzione dell’arte della conversazione, sono la tracimazione di violenza e nichilismo, l’essenza del grillismo.

    L’Italia è un paese sempre più periferico, ma ancora laboratorio politico incandescente, ha in casa questa macchina alla kryptonite che raccoglie voti e vuoti, mentre il nostro domani prende le sembianze di una depressione giapponese, un raggelante Sol Calante. Abbiamo lo stesso rapporto tra debito e pil del Giappone negli anni Novanta, la popolazione più vecchia del mondo, una produzione tanto anemica che il governo fa il girotondo intorno all’Istituto nazionale di statistica per un appassito zero virgola. Se ci voltiamo indietro, non ci sono samurai all’orizzonte e la nostra Mitsubishi, la Fiat di Marchionne e Elkann, veleggia su altre rotte aspettando invano che la Bella Addormentata, l’Italia, si svegli. E’ la favola ghigliottinata, privata di happy end in un presente senza sovranità, senza yen, con Letta e non con Shinzo Abe. E’ un paese che scrive la sua autobiografia in cicli di ventenni e decenni contrappuntati dalla tecnocrazia senza voti. Grillo in questa palude si trova a suo agio, si muove con la forza primitiva di un mostro mitologico che andrebbe isolato e non blandito, messo ai margini e non intervistato nei talk show della solita cricca perché tanto “parla e basta” e poi che vuoi farci, è l’audience che detta la linea e vai con l’applauso. Perdonateli, gli intelligenti a prescindere del flat screen, non sanno quello che fanno.

    E’ un circolo tanto democratico e lungimirante che s’alza la mattina e chiede di bandire da Twitter quelli che inneggiano allo stupro, salvo poi, senza sentirsi neanche un po’ in imbarazzo, il giorno dopo invitarli a parlare sui loro giornali in pensosi forum e interviste. D’altronde, quello dell’élite in progress fu un grillismo ante litteram, un se non ora quando con il manganello a una dimensione dove, alla fine, gli estremi si strusciano. Tolleranti e sottilmente compiaciuti per il porno pop giudiziario sul berlusconismo, il turpiloquio con scasso declinato in questurese, l’intercettazione gaglioffa, il verbale soft-core allungato con la sinistra e pubblicato con la destra come principio di selezione della classe dirigente. Usavano con gioia lo sfollagente per una pulizia etnica culminata con l’idea pazza di farci un governo, con il clown, grazie al supporto logistico dei suoi gazzettieri consapevoli. Lisciare il pelo contro ogni logica e buon senso, l’importante era far fuori il nemico, l’innominabile. Le presidenze di Camera e Senato, le pallide figure di Boldrini e Grasso, sono nel turbine di un contrappasso dantesco. Figlie di uno scambio pentastellato, ora subiscono lo sfregio con l’acido muriatico. Deboli di nascita, con il Dna istituzionale deviato, oggi sono il bersaglio di Grillo, leggono l’accusa di “colpo di stato” e scoprono che smacchiare il giaguaro in realtà significava mettersi in casa l’esercito delle dodici scimmie, un virus, il male invisibile del film di Terry Gilliam in cui la citazione chiave è un memento: “Il futuro è storia”.

    Cent’anni dopo, la polvere del 1914 non s’è ancora posata, il Novecento non è né salvo né archiviato. C’è qualcosa nell’aria.