Il suo Sudafrica. Cronache da un paese orfano

Ora che Mandela non c'è più

Maurizio Stefanini

Su quel che sarebbe successo in Sudafrica se non ci fosse stato Nelson Mandela può forse dare un’idea la storia dello Zimbabwe di Robert Mugabe: i bianchi espropriati e costretti alla fuga; due milioni di neri di origine straniera espulsi; 20.000 uccisi nella pulizia etnica del Matabeleland; la ricchezza nazionale scesa del 20 per cento; la produzione agricola del 26 per cento; l’inflazione più alta del mondo; il 70 per cento della popolazione disoccupato; il 35 per cento con l’Aids; tre milioni di persone che hanno bisogno di aiuto alimentare permanente (ma il governo distribuisce gli aiuti internazionali solo a chi è fedele al potere); l’aspettativa di vita ridotta a 30 anni; mezzo milione di persone senza casa e un milione emigrato all’estero; brogli elettorali a catena per consentire al presidente di restare ancora abbarbicato al potere a 89 anni.

    Su quel che sarebbe successo in Sudafrica se non ci fosse stato Nelson Mandela può forse dare un’idea la storia dello Zimbabwe di Robert Mugabe: i bianchi espropriati e costretti alla fuga; due milioni di neri di origine straniera espulsi; 20.000 uccisi nella pulizia etnica del Matabeleland; la ricchezza nazionale scesa del 20 per cento; la produzione agricola del 26 per cento; l’inflazione più alta del mondo; il 70 per cento della popolazione disoccupato; il 35 per cento con l’Aids; tre milioni di persone che hanno bisogno di aiuto alimentare permanente (ma il governo distribuisce gli aiuti internazionali solo a chi è fedele al potere); l’aspettativa di vita ridotta a 30 anni; mezzo milione di persone senza casa e un milione emigrato all’estero; brogli elettorali a catena per consentire al presidente di restare ancora abbarbicato al potere a 89 anni. E non è ancora finita, se si pensa alla legge che dal primo gennaio nello Zimbabwe obbligherà tutti i negozi gestiti da stranieri a chiudere pena l’arresto dei proprietari: anche se ormai non sono più bianchi le principali vittime, ma cinesi e nigeriani. Tenendo conto di questo disastro, forse proprio l’aspro attacco che Mugabe gli aveva mosso nel maggio scorso può essere considerato il miglior elogio del legato di Nelson Mandela. “Mandela si è spinto troppo oltre nel fare il bene alle comunità di non negri, in alcuni casi andando contro i suoi stessi interessi”, aveva detto Mugabe. “Mandela vuole essere santificato. Troppo buono, troppo santo”.

    Heidi Holland, biografa di Mugabe, ha spiegato come in questa acidità vi fosse più di una punta di invidia, per il modo in cui Mandela dopo la sua liberazione era diventato il grande protagonista della scena politica africana, togliendo lo spazio a tutti gli altri comprimari. Peraltro nel giugno scorso, proprio nel momento in cui i tweet del tennista spagnolo Rafael Nadal e dell’anchorman britannico Piers Morgan diffondevano una falsa notizia di morte di Mandela, quell’omologo e ammiratore sudafricano di Mugabe che corrisponde al nome di Julius Malema sfidava nel modo più plateale il messaggio di Mandela annunciando la creazione di una nuova piattaforma politica che lotterà “per recuperare la dignità dei negri”. Senza più tentare dunque di rientrare in quell’African National Congress che lo aveva espulso dopo che ne era stato il presidente della lega giovanile, un partito diventato a suo dire “di destra, neoliberale e capitalista”, il 32enne Malema parteciperà alle elezioni del 2014 alla testa della nuova formazione politica degli Economic Freedom Fighters, chiedendo l’espropriazione delle terre senza indennizzi e la nazionalizzazione di miniere, banche e altri settori strategici. I maligni dicono che non ha nulla da perdere, visto che la magistratura gli aveva appena sequestrato l’ultima delle fattorie che ancora gli rimanevano, dopo che il resto di un patrimonio di oscura origine gli era già stato sottratto nelle maglie di un’indagine per lavaggio di denaro sporco e frode da almeno 4 milioni di euro. E in più, il 30 settembre 2014 andrà sotto processo per corruzione. C’è pure chi dice che, come per Mugabe, anche per Malema lavora il risentimento. L’unica volta che Mandela lo ricevette, sembra che gli abbia detto seccamente: “Ah, sei tu quel ragazzo che parla tanto sui giornali”.

    Sull’iniziativa politica di Malema, ora che Mandela non c’è più, aleggiano fosche previsioni. Dal timore espresso dai bianchi di essere “buttati tutti in mare” (una tenebrosa leggenda parla addirittura di un piano per un gigantesco pogrom), all’ipotesi che il presidente Zuma, senza più alcuna remora, scatenerà contro i rivali i giudici (quella magistratura, addomesticata come poche, che lo ha assolto malgrado gravissime accuse per stupro e corruzione).

    Malema non è solo. Quando Mandela era ancora in ospedale, a sorpresa, la polizia aveva riaperto contro la sua seconda moglie Winnie Madikizela-Mandela un’inchiesta per omicidio. Soprannominata Mother of the Nation durante i lunghi anni in cui si era esibita come la consorte sofferente del martire in prigione, Winnie era poi diventata “Mudder of the Nation”, vergogna della nazione, quando, proprio in concomitanza con la liberazione del marito, si era trasformata in una satrapa violenta e corrotta, alla testa di una pretesa squadra di calcio che era in realtà una banda di pericolosi squadristi. “Libereremo il Sudafrica a colpi di collari di fuoco”, aveva detto nel 1986, in riferimento ai copertoni accesi infilati nel collo con cui venivano linciati i pretesi collaborazionisti. Nel 1989 lo scandalo divenne massimo quando i suoi squadristi uccisero il 14enne Stompie Moeketsi. Condannata nel 1991 a sei anni per sequestro di persona e aggressione, Winnie si vide ridurre la pena in appello all’equivalente di 6.000 euro attuali di multa proprio grazie al nuovo clima politico. La scampò poi del tutto con l’amnistia: ebbe solo un rimprovero da parte della commissione per la Verità e la riconciliazione, che avrebbe poi derubricato tutte le possibili pendenze penali del tempo dell’apartheid in cambio di confessioni. E divenne anche First lady, oltre che viceministro nel governo del marito. Ma criticando ferocemente il suo moderatismo e cercando di aizzargli contro l’ala più radicale dell’Anc, peraltro dopo che i due si erano separati, nel 1992. Il divorzio, nel 1996, avrebbe coinciso con il suo allontanamento dal governo, in cui non è più tornata. Ma, come Malema, non ha mai smesso di cercare la leadership del partito, appoggiandosi alle sue tendenze più radicali.

    Insomma, l’eredità di Mandela come guida storica del partito ha scatenato una specie di notte dei lunghi coltelli. Ma anche l’eredità privata è tempestosa, con la causa che le due figlie Makawize e Zenani hanno fatto al padre moribondo dopo il ricovero. L’una figlia della prima moglie Evelyn, l’altra di Winnie, le due sono ricorse al tribunale per prendere il controllo delle sue opere d’arte e dei due fondi di investimento per l’infanzia che valgono circa 1,7 milioni di dollari (contro l’altra sentenza del 2004 con la quale Mandela le aveva escluse dalla gestione). Il clima da parenti serpenti è accentuato dal particolare che a difendere le due donne nella causa contro il premio Nobel per la Pace è l’avvocato Ismail Ayob: noto difensore degli attivisti anti apartheid, ma soprattutto ex vecchio amico di Mandela, che lui stesso otto anni fa aveva tuttavia estromesso dalla gestione dei suoi affari per il sospetto che avesse venduto senza autorizzazione alcuni quadri che gli appartenevano.

    Accanto all’eredità di capofamiglia e a quella di capopartito, per fortuna di Mandela c’è l’eredità di statista. Ed è lì che rifulge il suo ruolo storico, una cui indiretta celebrazione era arrivata proprio alla vigilia del suo ricovero, e a tempo di danza. La Nazionale sudafricana di rugby, quella che sconfisse gli All Blacks nella finale di Coppa del mondo del 1995 raccontata nel film “Invictus”, non le esegue prima delle partite, ma anche le danze zulu sono un’icona dell’identità sudafricana: sia nella versione doc, coi costumi tribali in pelle di vacca e brandendo lancia e scudo; sia in quella da meeting in strada, dove si può stare anche con un normale vestito all’occidentale mentre si cerca di alzare alternativamente le ginocchia fino all’altezza delle guance. E alzando le ginocchia fino all’altezza delle guance il Sudafrica ha celebrato la propria consacrazione nel club degli Emergenti che contano quando, dal 25 al 27 marzo di quest’anno, ha ospitato a Durban il quinto vertice dei Brics, cui era stato ammesso nel 2010. Guerrieri zulu danzanti con lance e scudi erano all’aeroporto, ad accogliere le delegazioni in arrivo. Altri guerrieri zulu hanno danzato nella cerimonia d’apertura, mescolati a bajadere indiane, tenori e giocolieri cinesi e ballerini di samba brasiliani, a simbolizzare lo spirito di fratellanza tra i soci. Che poi non sono riusciti in realtà a mettersi d’accordo sulla partenza dell’annunciata banca di sviluppo alternativa alla Banca mondiale e al Fmi: perché ognuno voleva la sede e perché lo stesso Sudafrica non era convinto di dover versare gli stessi 10 miliardi di dollari degli altri partner, malgrado la sua economia sia appena un ventesimo di quella cinese e un quinto di quella russa e indiana. Comunque hanno promesso che si farà. Ma la municipalità di Durban ha anche organizzato una New Beach Dance Extravaganza in strada: un “evento per famiglie” pure con danze “ispirate alle culture” di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, oltre a dimostrazioni di Tai Chi, live art, drum circles e pittori di murales.

    Ripartiti gli ospiti, proprio il giorno dopo il quasi 95enne Nelson Mandela era finito in ospedale. Anche lui, tornato in libertà a 72 anni, dopo 28 passati in carcere, si era segnalato subito nei comizi come un appassionato danzatore, malgrado le gambe ormai legnose e la Tbc contratta durante la detenzione. Mentre gli inviati erano affannosamente alla ricerca di capire come i giovani considerassero il vecchio patriarca e gli esperti erano altrettanto affannosamente impegnati a redigere “coccodrilli”, il vecchio Madiba, come lo chiamano per via del suo clan di appartenenza, aveva potuto ristabilirsi abbastanza da tornarsene a casa. Ma gli articoli erano restati, e l’analisi aveva potuto anzi decantarsi intanto che arrivava il nuovo ricovero, con le indiscrezioni durate per mesi su Madiba che ormai non era più in grado di parlare, e comunicava solo con le mani. Fare il bilancio sull’esistenza di Mandela subito dopo la kermesse dei Brics, infatti, in qualche modo ha segnato la definitiva consacrazione del padre della patria attraverso l’ascesa in orbita della patria da lui costruita. Anche se forse la massima consacrazione c’era già stata, più ancora che nel Nobel per la Pace o nella sua elezione alla presidenza, nel tributo hollywoodiano del 2009, quell’“Invictus” in cui lo interpretava Morgan Freeman. I cui tratti songhai e tuareg, lo sappiamo perché con i recenti studi sul Dna oggi fra i vip afro-statunitensi è di gran moda ricostruire le etnie di origine degli avi schiavizzati, in realtà sono piuttosto diversi dal mix xhosa-boscimane del volto di Mandela: l’Africa australe è cosa diversa da quell’Africa occidentale che fornì quasi tutti i deportati della tratta negriera nelle Americhe. Ma in qualche modo, nella loro irregolarità, li evocano. E a suo modo irregolare eppure sincero era stato l’omaggio del “destro” Clint Eastwood al “sinistro” pragmatico che dopo essere stato così a lungo perseguitato dai “boeri”, spende il suo prestigio proprio per convincere i neri a tifare per la Nazionale degli Springboks. Così a lungo da loro detestata proprio perché simbolo dell’orgoglio afrikaner, e composta da tutti bianchi eccetto uno. Nel contempo, però, convince anche i giocatori bianchi a intonare “Nkosi Sikelel’ iAfrika”: il canto dell’Anc che era diventato inno nazionale assieme a quello “boero” “Die Stem van Suid-Afrika”, e che molti di loro continuavano ancora a considerare una “roba da terroristi”. E tutti assieme, bianchi e neri e indiani e coloured, avevano infine festeggiato appunto con la danza che porta le ginocchia fino alle guance, la vittoria della rappresentativa della “Nazione Arcobaleno”. Miracolata appunto dall’attenzione presidenziale, dopo una lunga serie di sconfitte spesso umilianti.

    Il film ci ricorda peraltro come anche i neri avessero ripugnanza a cantare “Die Stem van Suid-Afrika”. Nel 1997 il problema è stato infine risolto col fondere i due inni in uno: prima strofa, si canta quello “africano”; seconda, quello “boero”. Un inno arcobaleno, per una nazione arcobaleno che in base alla Costituzione del 1996 ha anche un sistema di lingue ufficiali arcobaleno: inglese, afrikaans, ndebele, sesotho del nord, sesotho, swati, tsonga, tswana, venda, xhosa, zulu. E una capitale arcobaleno: il governo a Pretoria, il Parlamento a Città del Capo, il potere giudiziario a Bloemfontein, e la Borsa nella capitale economica Johannesburg. E fino al 1997 ha avuto anche un governo arcobaleno, visto che come misura provvisoria tutti i partiti oltre i 20 deputati avevano il diritto di partecipare al governo e di avere un proprio vicepresidente. Peraltro, l’African National Congress da quando si è passati alle elezioni secondo il principio “un uomo, un voto” non è mai sceso sotto il 62,65 per cento, arrivando fino a un massimo del 69,69: alle ultime, nel 2009, ha avuto il 65,9 per cento, con 264 deputati su 400. Secondo partito, con il 16,66 per cento e 76 deputati, è l’Alleanza democratica: formazione liberale erede dei partiti dei bianchi anti apartheid, il cui leader è la premier della provincia del Capo occidentale Helen Zille. Terzo, con il 7,42 per cento e 30 deputati, il Congresso del popolo: nato da una scissione dell’ala moderata dell’Anc ostile all’esautoramento di Thabo Mbeki da parte di Zuma, e il cui leader è l’ex ministro della Difesa ed ex premier dell’Orange Mosiuoa Lekota. Quarto, con il 4,55 per cento e 18 deputati, l’Inkatha Freedom Party: partito zulu dell’ex ministro dell’Interno e membro della dinastia reale zulu Mangosuthu Buthelezi. Senza citare una serie di formazioni sotto l’1 per cento.

    Insomma, anche il Parlamento è arcobaleno, pur con un colore che occupa da solo i due terzi dell’iride. E l’Anc, malgrado le varie scissioni subite, resta a sua volta un partito arcobaleno, in cui i comunisti e i sindacati del Cosatu stanno assieme agli esponenti della nuova borghesia nera nata dal cosiddetto empowerment e addirittura agli ex membri del vecchio National Party, il partito dell’apartheid, che è confluito nell’Anc nel 2005. Prima di considerarlo incredibile, provate a immaginare un italiano a cui fosse stato detto nel 1948, nel 1956 o anche nel 1976 che gli eredi di Pci e Dc si sarebbero uniti nel Partito democratico…

    Tra gli Springboks, i Brics, la Rainbow Nation e la santificazione di Mandela, dunque, si può ancora parlare di una polveriera razziale che la generosità lungimirante del grande leader è riuscita a disinnescare, aprendo un’èra di prospera convivenza e collaborazione in cui tutti hanno avuto il loro posto. Aggiungiamo che il Sudafrica è cresciuto del 3,1 per cento nel 2011, del 2,8 nel 2012, anche se l’aspettativa per il 2013 è calata dal 3,6 prima al 2,7 e poi al 2,1 per cento. Che rappresenta un quarto dell’economia africana e 18 delle 40 “African Challengers”, ovvero di quelle multinazionali africane ormai in grado di competere con i concorrenti del resto del mondo. Che resta una delle casseforti minerarie del pianeta. Che le riserve valutarie hanno raggiunto a gennaio la quota record di 51.227 milioni di dollari. E che secondo il Fmi le politiche economiche sudafricane sono ok sotto tutti i punti di vista: monetario, fiscale, per il tasso di cambio e la gestione complessiva. Ma questo non è l’unico discorso possibile, e qualche particolare che non quadra sprizza fuori in continuazione.

    Per una di quelle coincidenze che accadono talvolta nella storia, Mandela è morto proprio mentre la Francia torna in prima linea nella Repubblica Centrafricana. E dopo le danze della cerimonia di chiusura dei Brics c’era stato un momento di silenzio in commemorazione dei 13 soldati sudafricani morti la settimana prima a Bangui contro i ribelli centrafricani per sostenere il governo in carica, nel momento in cui lo stesso presidente Bozizé, ex golpista, era scappato, e più nessuno lo sosteneva. Eccetto, paradossalmente, quegli altri militari inviati dalla Francia, il paese con cui invece il Sudafrica si era trovato ai ferri corti al tempo della guerra civile libica, quando Sarkozy aveva spinto i ribelli alla vittoria, mentre Zuma cercava disperatamente di sostenere Gheddafi. Da ricordare anche la denuncia secondo cui Gheddafi avrebbe nascosto in Sudafrica, presso quattro istituti di credito e varie assicurazioni, un tesoro da un miliardo di dollari in diamanti, oro e denaro in contanti, di cui il nuovo governo libico ha chiesto il rimpatrio. Ma prima ancora di questi interessi, era stato l’asse di ferro tra il Sudafrica e la Giamahiria a pilotare il progetto dell’Unione africana: più precisamente, l’asse tra il prestigio politico e la capacità di motore economico continentale del Sudafrica del post apartheid e i petrodollari di Gheddafi, che oltre a versare da solo il 15 per cento dei 115 milioni di dollari del bilancio operativo dell’Unione, pagava regolarmente gli arretrati dei paesi più piccoli soprattutto dell’Africa occidentale, fino a raddoppiare in pratica questo contributo e arrivare a un terzo del totale. In un primo momento l’Unione africana aveva fatto fuoco e fiamme contro il cambio di regime centrafricano, ma dopo qualche giorno il governo di Pretoria aveva ritirato il contingente di 300 uomini, tacitamente riconoscendo l’inutilità dell’intera operazione.

    Dopo aver riferito sui dubbi degli alti gradi militari rispetto alla scelta di intervento del potere politico, la stampa sudafricana aveva parlato di uno “scenario alla Black Hawk Down”, evocando il disastro degli americani in Somalia. “Tredici soldati morti, 27 feriti e, siamo stati informati in apparenza come dimostrazione del coraggio dei nostri soldati, almeno 700 ribelli Séléka uccisi”, aveva commentato acidamente l’influente tabloid di Johannesburg Mail & Guardian. Che fu poi minacciato di querela dall’Anc per aver detto che l’intervento era stato deciso per proteggere precisi interessi minerari in termini di oro e uranio, collegati col partito al potere. “Hanno orinato sulle tombe dei valorosi soldati che hanno lasciato la loro vita al servizio del paese e del continente”, la risposta dell’Anc.

    Ma, interessi più o meno confessabili a parte, i giornali sudafricani si sono anche interrogati sulla generale efficienza della South African National Defence Force (Sandf) del post apartheid, e sulla bussola attuale in politica estera di un governo che come erede del movimento anti apartheid ai tempi della presidenza Mandela aveva esordito proprio dichiarando con gran clamore la propria adesione a un modello di diplomazia basato su alti valori etici. O, se vogliamo, sulla bussola tout court, dal momento che mentre il presidente Zuma rispondeva alle critiche spiegando come “il guaio del Sudafrica è che tutti vogliono mettere becco nelle scelte del governo”, il suo ministro della Difesa Nosiviwe Mapisa-Nqakula rassicurava che “ogni sudafricano ha il diritto di chiedere trasparenza e noi abbiamo il dovere di dargliela”. Non è d’altronde questa la prima figuraccia della Sandf del post apartheid. Già nel 1998 undici dei suoi uomini morirono nel corso di un intervento per impedire un golpe in Lesotho, che non riuscì peraltro a fermare il saccheggio con il quale la capitale Maseru fu messa a ferro e fuoco. Nel 2006 in 36 caddero in un’imboscata nel Darfur nella quale persero le armi in dotazione.

    Tutto questo però riguarda ciò che fa il nuovo Sudafrica nei suoi rapporti col continente e col mondo. Su quel che accade al suo interno, parole di fuoco sono venute proprio dalla persona che in questi anni a Mandela è stata più vicina: la sua terza moglie, Graça Machel. Che ha un record: è l’unica donna al mondo a essere stata First lady di due paesi diversi. Di 33 anni più giovane di Mandela, nata Graça Simbine in un’area rurale dell’allora Mozambico portoghese, grazie agli studi in una missione metodista è potuta andare all’Università di Lisbona, dove si è specializzata in tedesco: ma sa anche di spagnolo, francese, inglese e italiano, oltre ovviamente al portoghese e al nativo tsonga, e dopo il suo secondo matrimonio si è impratichita anche di xhosa e afrikaans. Militante del movimento di guerriglia nazionalista Frelimo e ministro della Cultura e dell’educazione nel 1975 al momento dell’indipendenza, il suo primo matrimonio era stato infatti nel 1976 col presidente e leader del Frelimo Samora Machel, che però morì nel 1986 in un incidente mai del tutto chiarito. L’aereo dove viaggiava cadde infatti in territorio sudafricano, in un momento in cui c’era ancora l’apartheid, Machel appoggiava l’Anc e il governo di Pretoria per rappresaglia finanziava la guerriglia anti Frelimo della Renamo. La commissione d’inchiesta stabilita dallo stesso governo di Pretoria stabilì che il Tupolev Tu-134 di fabbricazione sovietica era precipitato per l’errore di un pilota, ma sia il governo di Maputo che quello di Mosca respinsero quel verdetto, insinuando che c’erano dietro i servizi sudafricani, senza però presentare alcuna prova. José Milhazes, corrispondente da Mosca per giornali e tv portoghesi, ha in seguito sostenuto che l’equipaggio sovietico era ubriaco: una realtà nascosta da Mosca per evidenti ragioni di faccia e dal Frelimo per consolidare la fama del padre della patria martire. Ma nel 2007 il dirigente del Frelimo Jacinto Veloso ha tirato fuori l’ulteriore storia di un aereo sabotato apposta dai sovietici, dopo che all’accusa dell’ambasciatore di Mosca di stare manovrando per spostarsi dalla parte dell’occidente, Machel avrebbe risposto di “andare alla merda”. Graça è convinta che non sia stato un incidente e ha chiesto nuove inchieste, ma senza mai azzardarsi a indicare un possibile colpevole.
    Lasciato comunque il governo, la vedova si dedicò a lavorare per l’Onu a favore dei bambini vittime della guerra, ricevendone il premio Nansen e il premio Principe delle Asturie. Il suo matrimonio con l’ottantenne Nelson Mandela avvenne nel 1998, due anni dopo che lui aveva divorziato da Winnie. A parte i sentimenti personali, non c’è dubbio che il nuovo ménage con la dolce e rassicurante Graça – “Mamma Graça” la chiamano – servì a Mandela anche a ripulire l’immagine da quell’imbarazzante svarione della sua biografia rappresentato dal matrimonio con l’assassina di minorenni. Proprio Graça ha fatto un simbolico processo al clima di violenza di cui l’odio razziale predicato da Winnie era stato una delle origini, denunciando il Sudafrica come “nazione arrabbiata”. L’occasione, il 6 marzo, una manifestazione per Mido Macia: un 27enne suo connazionale i cui genitori, quando lui aveva 10 anni, erano emigrati in Sudafrica in cerca di una vita migliore, come migliaia di altri mozambicani. Mido lavorava come tassista nella township di Daveyton, in quella provincia di Gauteng che in pratica coincide con la sovraffollata conurbazione Pretoria-Johannesburg. La sua colpa: aver parcheggiato in divieto di sosta, causando un ingorgo di traffico. Era il 26 febbraio scorso: i poliziotti lo hanno arrestato e per domare la sua resistenza lo hanno ammanettato al cofano posteriore della loro camionetta, hanno avviato il motore, e lo hanno trascinato sulla strada per 500 metri. Il famoso umorista Zapiro, un Vincino locale, ha riprodotto la scena in un disegno con una didascalia: “La reputazione del Sudafrica”.

    Non è chiaro se Mido sia morto per quello, o perché comunque dopo averlo portato in cella i poliziotti lo hanno sottoposto a un ulteriore pestaggio. Certo è che due ore dopo l’arresto era già cadavere. Gli otto poliziotti sono finiti sotto processo. L’Anc ha organizzato manifestazioni di protesta in cui si sono cantati vecchi inni rivoluzionari, che peraltro incitano alla violenza a loro volta. “Umshimi wami”, per esempio, in zulu: “Dammi il mio mitra”. Forse non la risposta migliore, nel momento in cui Graça Machel ricorda come “la violenza è ormai fuori controllo”. E non solo perché la polizia “è molto aggressiva verso un pubblico impotente”. “Quando si deve vedere la polizia, che dovrebbe proteggere la gente, comportarsi come si comporta, diventa via via più chiaro che c’è un grosso problema che dobbiamo affrontare”. L’Independent Police Investigative Directorate sostiene che lo si sta affrontando: i 232 morti in detenzione e gli altri 488 morti come risultato di azioni della polizia nell’anno fiscale 2011-’12 sono il 10 per cento in meno rispetto al 2010-’11, “un miglioramento considerevole” sui quattro anni precedenti. Ma lo stesso Directorate ammette che si tratta di numeri “inaccettabilmente alti”.

    A parte lo stillicidio delle violenze spicciole, l’inadeguatezza delle forze dell’ordine è venuta drammaticamente alla ribalta pure col massacro di Marikana del 16 agosto 2012, quando ben 34 minatori furono uccisi e 78 feriti in quello che la stampa sudafricana ha definito il più grave spargimento di sangue da parte della polizia dai tempi della fine dell’apartheid. E’ vero peraltro che, prima ancora dell’intervento delle forze dell’ordine, la violenza era stata già introdotta da una faida tra i minatori stessi: i colpi di machete e di bastone tra sindacati rivali avevano preceduto sia le bombe a mano e le molotov contro la polizia, sia le pallottole della polizia sui minatori. Teatro degli scontri una miniera di platino, dove il tradizionale strapotere del sindacato Num, era stato sfidato da una sorta di Cobas locali chiamati Amcu.

    Il Num, National Union of Mineworkers, ha 300.000 iscritti, ed è il più grande tra i sindacati affiliati alla potente centrale sindacale Cosatu: quel Congress of South African Trade Unions che condusse la lotta all’apartheid assieme all’Anc, e che è diventato un pilastro essenziale della sua forza elettorale. Tanto che gli analisti, piuttosto che di semplice Anc preferiscono parlare di una “triplice alleanza” alla guida del paese, di cui appunto il Cosatu è uno dei tre partner assieme allo stesso Anc e al piccolo ma intellettualmente influente Partito comunista: curiosamente, influente soprattutto nel senso della moderazione. Ma l’eterno allineamento al governo non può non creare malumori, e la scissione dell’Amcu, Association of Mineworkers and Construction Union, ha in breve tempo guadagnato l’adesione di almeno il 21 per cento dei minatori. I più arrabbiati per le stagnanti condizioni salariali: da cui la frequente accusa all’Amcu di utilizzare metodi squadristi. L’Amcu aveva indetto sei giorni di sciopero per chiedere alla Lonmin, proprietaria di Marikana, di triplicare lo stipendio, passando da 4.000 a 12.500 rand al mese (da 400 a 1.250 euro). Per la Lonmin una richiesta irricevibile, con la crisi dell’industria automobilistica mondiale e la drastica riduzione della domanda di platino, che serve per le marmitte catalitiche e di cui il Sudafrica fornisce l’87 per cento della produzione mondiale. Dopo i primi scontri, con morti, tra scioperanti dell’Amcu e “crumiri” della Num e dopo le minacce di licenziamenti da parte della Lonmin, la polizia aveva cercato di intavolare un negoziato con 3.000 irriducibili, che è però degenerato.

    Dopo la strage, la stessa polizia ha cercato di spiegare che era stata costretta a difendersi da un attacco in cui erano state usate anche le armi da fuoco prese ai due agenti già uccisi. Ma le autopsie hanno rivelato che gran parte dei morti erano stati colpiti alla schiena, e lontano dallo schieramento dei poliziotti. E alla commissione d’inchiesta istituita nell’ottobre 2012 dal presidente Zuma è stato addirittura sostenuto che vari machete sarebbero stati messi accanto ai cadaveri dagli stessi poliziotti. 270 scioperanti sono stati comunque detenuti fino all’inizio di settembre. Il 18 settembre un mediatore ha infine annunciato che i minatori avrebbero ripreso a lavorare il 10 ottobre, in cambio di un aumento del 22 per cento. Ma dopo il massacro tutto il settore minerario del paese è stato colpito da un’ondata di scioperi selvaggi, con oltre 75.000 lavoratori che hanno bloccato l’estrazione di oro e argento. Nell’ottobre 2012 gli scioperi si sono estesi ai braccianti delle vigne, portate all’altro capo del mondo dai contadini ugonotti espulsi dalla Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes da parte del Re Sole. La richiesta era un raddoppio delle paghe, ma di nuovo la polizia è intervenuta sparando, e di nuovo c’è scappato il morto. A quel punto varie società hanno risposto annunciando licenziamenti in massa, e più di un mito dei tempi della lotta anti apartheid è impallidito. Prima 1.500 minatori in sciopero, poi altri 8.500 sono stati licenziati dalla Gold Fields dopo essere stati ammoniti a tornare al lavoro. Presidente di Gold Fields è Mamphela Ramphele: già fondatrice del Black Consciousness Movement e compagna del suo leader Steve Biko – quello del film “Grido di libertà” – da cui ebbe un figlio. Anche la Anglo American ha licenziato 12.000 scioperanti delle sue miniere di platino, in sciopero da tre settimane. E a sua volta la Anglo American aveva la reputazione di società del capitale bianco anglofono illuminato: fautrice di relazioni industriali aperte, pioniera dell’elevazione dei neri, finanziatrice di partiti e movimenti anti apartheid, anche importante mediatrice al tempo della transizione.

    La violenza però non è solo quella della polizia. Appena 12 giorni prima del caso Mido Macia, il 14 febbraio, il mondo era stato scosso dalla notizia che Oscar Pistorius aveva ucciso la fidanzata Reeva Steenkamp. Entrambi afrikaans, e lui con avi siciliani. Lui era il campione senza gambe che correva su protesi in fibra di carbonio: unico atleta handicappato nella storia in grado di vincere una medaglia per normodotati, con l’argento nella staffetta 4x400 ai Mondiali di Daegu del 2001. Lei bellissima e affermatissima modella, innamoratissima, quasi materna coi suoi tre anni in più, e benché in passerella da quando era 14enne, tanto brava da riuscire anche a laurearsi e a fare l’assistente legale negli intervalli tra una sfilata e uno spettacolo. Insomma, un’altra grande icona di buona volontà e integrazione per la nazione arcobaleno del profeta Nelson Mandela. Tantissime le versioni sul perché Oscar abbia sparato a Reeva: dall’iniziale voce dei giornali che lei si fosse infilata nel suo letto per fargli una sorpresa di San Valentino e fosse stata scambiata per un rapinatore; all’opposta diceria di una crisi di gelosia di lui scoprendola incinta forse di un altro; alla tesi dello stesso Oscar secondo cui Reeva si era alzata per andare in bagno, lui non se n’era accorto e allarmato per i rumori aveva fatto fuoco.
    A procedimento ancora in corso, e con il tribunale che concedendogli la libertà su cauzione e anche il permesso di recarsi all’estero è sembrato comunque sempre più accreditare la tesi sul delitto preterintenzionale, almeno tre verità sembrano essere emerse. Primo, l’incompetenza della polizia, in questo caso impersonata da Hilton Botha, un agente con 24 anni di servizio alle spalle, gli ultimi 16 dei quali come detective. Di lui si sa presto che assieme a altri due ufficiali ha sparato contro un minivan con a bordo sette persone che non si era fermato. A screditarlo ulteriormente è l’annuncio clamoroso che nella casa di Pistorius sono state trovate sostanze dopanti, nello specifico testosterone e siringhe. Ma dopo che la difesa replica che non si tratta di steroidi o di sostanze proibite ma di un rimedio alle erbe, il portavoce della procura Medupe Simasiku deve ammettere che c’è stato un errore, che i test sono ancora in corso, e che quindi l’identificazione delle sostanze non è certa. A questo punto il difensore di Pistorius Barry Roux si scatena e costringe Botha ad ammettere che nessun elemento di prova raccolto sulla scena del delitto di Reeva Steenkamp contraddice la versione dell’incidente fornita dall’atleta. Non solo: cade anche la testimonianza dei vicini di casa, che avevano riferito di aver udito tra le due e le tre del mattino del 14 febbraio “due persone urlarsi contro”. Magari le urla ci sono state davvero, ma non sono identificabili nelle voci di Pistorius e della sua fidanzata. Dulcis in fundo, i poliziotti di Botha potrebbero aver contaminato la scena del crimine, avendo camminato per tutta la casa senza protezioni alle scarpe.

    Ribadito che la polizia sudafricana lavora male, varie testimonianze confermano un Pistorius inquietante, ed è la seconda verità di questa storia. Un personaggio che già nel 2009 era stato arrestato con l’accusa di aver picchiato una donna, anche se poi ne era stata scagionata. Il Beld, quotidiano in lingua afrikaans che per primo ha dato al mondo la notizia della tragedia, racconta di quando a gennaio Pistorius si era messo a sparare in un affollato ristorante a Johannesburg: un errore, ma a momenti ci rimaneva secco il pugile Kevin Lerena. “Un incidente allucinante”, è la testimonianza. “La pistola apparteneva a un amico di Pistorius, di cui non voglio dire il nome. Oscar volle solo guardare l’arma, la strusciò contro i pantaloni, allentando la sicura, partì un colpo”. Di fronte all’allarmato direttore del ristorante, accorso dopo il colpo, gli amici però negarono unanimemente. Altre testimonianze parlano di eccessi di caffè e bevande energetiche già da qualche mese prima delle Olimpiadi di Londra.  Di feste con sconosciuti a base di alcol. Di una vera mania per le bionde. Di tremende escandescenze quando non riusciva a compiere esercizi ginnici in palestra. E, soprattutto, del tiro a segno praticato come terapia fai da te contro l’insonnia. Insomma, l’identikit di un ragazzo che aveva cercato nel successo sportivo di superare il senso di inferiorità per il suo tremendo handicap, ma che alla fine era diventato prigioniero del suo successo.

    Ma ciò riguarda problemi personali, più che nazionali. Il terzo elemento che emerge dalla vicenda Pistorius, è che l’atleta aveva trasformato la sua casa in una specie di fortino, e che faceva collezione di armi appunto con l’obiettivo di difendere la sua abitazione. Secondo i media sudafricani, a gennaio aveva chiesto la licenza per il porto di ben sei armi pesanti: un fucile Maverick, un fucile Mossberg, un fucile Winchester, una carabina Vextor 223, un revolver Smith & Wesson 500 e un revolver 38 Special. Sull’arma del crimine, una calibro 9, all’inizio si dice che la possedeva senza licenza, ma poi viene chiarito che dopo essersi visto rifiutare la licenza nel 2008 l’aveva ottenuta nel 2010. “Teneva sempre una piccola pistola vicino al letto e un fucile sotto la finestra. Aveva una sorta di macchina del fuoco tra le mura di casa”, racconta un giornalista del Daily Mail che nel 2011 è stato per un po’ suo ospite. Secondo questa testimonianza, Pistorius era ossessionato dalla paura di intrusioni o di rapine. E qui la sua ossessione cessa di essere paranoia personale, per specchiarsi invece nelle grandi paure della sua etnia e di tutto il paese. Su 4,6 milioni di sudafricani bianchi, di cui 3 milioni di afrikaner e il resto anglofoni, ce n’è stato un altro milione che dal 1994 in poi ha lasciato il paese, alimentando una diaspora che ha fatto nascere giornali e radio in afrikaans perfino in Australia. In parte le ragioni sono economiche. Favoriti nell’assegnazione dei posti pubblici al tempo dell’apartheid, gli afrikaner hanno perso molte opportunità quando la politica dell’empowerment ha invece iniziato a preferire i neri. In molti sono scesi sotto il livello di povertà, e sono nate addirittura bidonville di bianchi. Lo zulu Zuma dopo aver cavalcato contro Mbeki il risentimento delle altre etnie nere per il predominio della lobby xhosa nell’Anc a un certo punto aveva gridato anche alla “vergogna” per gli afrikaner poveri che il regime del post apartheid aveva ridotto nelle baraccopoli. “Non è possibile che nel nostro paese ci sia gente che vive in questo modo!”, aveva detto dopo una clamorosa visita a quella township di Bethlehem, vicino a Pretoria, dove un migliaio di boeri stava in baracche senza né luce, né acqua, né servizi igienici. Con Mbeki, i bianchi in condizione di povertà estrema erano aumentati da 400.000 a 450.000, e almeno 130.000 erano senza casa. Ma non è che con Zuma presidente le cose siano poi molto migliorate.

    Una grande molla per questa diaspora è appunto il terrore della criminalità, che spinge molti altri di quelli che restano ad armarsi fino ai denti. Su 40.000 agricoltori bianchi che ci sono in Sudafrica, in particolare, almeno 4.000 dal 1994 sono stati assassinati in modo spesso particolarmente feroce: grande scalpore fece nell’aprile del 2010 l’omicidio a colpi di machete e bastone di Eugène Terre’Blanche, chiassoso ma tutto sommato innocuo e al massimo folklorico ideologo della supremazia bianca. Qualcuno proprio per gli omicidi dei farmer ha parlato di “genocidio bianco”, ma la cifra totale di oltre 70.000 bianchi sudafricani uccisi sempre dal 1994 chiarisce che comunque le violenze peggiori accadono nei centri urbani. Proprio per protesta contro questo “genocidio bianco” è nato il movimento Ottobre rosso: non in onore della Rivoluzione russa, ma in riferimento al sangue versato e a quel 10 ottobre che fu festa nazionale boera dal 1882 al 1899 in onore del compleanno dell’amatissimo presidente del Transvaal Paul Kruger; poi celebrazione ufficiale del Sudafrica dal 1952 al 1993, in memoria dei 1.677 uomini boeri, 4.177 donne e 22.074 bambini morti nei campi di internamento britannici durante la guerra anglo-boera. E lo scorso 10 ottobre il movimento ha organizzato manifestazioni di piazza contro “l’oppressione dei negri” in venti città del Sudafrica, e anche in altri luoghi della diaspora afrikaner tra Stati Uniti, Londra e Australia. Rosso sangue erano anche i palloncini che sono stati alzati a dozzine, mentre i manifestanti alzavano grandi croci bianche. Con amara ironia è stata composta anche un riadattamento della filastrocca del giallo di Agatha Christie “Dieci piccoli indiani”. “Dieci piccoli bianchi stavano in una fila / uno fu rapinato e ucciso e ne rimasero nove / nove piccoli bianchi passando una porta / uno fu rapinato e ucciso e ne rimasero otto…”. E così via, fino al drammatico e inevitabile finale: “Un piccolo bianco era rimasto tutto solo / fu ucciso e non ne rimase più nessuno”.

    “E’ finito il silenzio di fronte agli assassinii di agricoltori bianchi e all’oppressione di cui soffre la minoranza bianca”, era scritto nel documento che il 49enne cantante e attore Steve Hofmeyr, leader del movimento, ha consegnato a un rappresentante del governo. Non collegati a nessun partito, senza strutture organizzate, i manifestanti sono stati convocati via internet, e in gran parte erano provenienti dalla campagna. Già acclamato con qualche “Steve presidente” anche se lui assicura di non volersi candidare da nessuna parte, Hofmeyr, che iniziò ad attivarsi sul tema dopo l’assassinio di Terre’Blanche, assicura di non essere un nostalgico del passato. “Ho votato in favore della nuova Costituzione perché l’apartheid non poteva continuare”, dice. Ma ritiene inammissibile che coi governi successivi siano peggiorate la qualità dell’educazione e la sicurezza. Ha detto anche che la discriminazione positiva a favore dei neri si è trasformata nei fatti in razzismo anti bianco, e ha annunciato di voler chiedere l’intervento della comunità internazionale. 

    La criminalità però non è solo un problema dei bianchi. Secondo l’Onu nel 2010 in Sudafrica sono state assassinate 15.940 persone: 40 omicidi al giorno. Varie stime sostengono che ormai saremmo arrivati alla cinquantina di omicidi al giorno. In un paese di 50 milioni di abitanti ci sono 2,5 milioni di possessori di armi legali, e probabilmente altri 6 milioni di armi illegali; meno che negli Usa, ma parecchio per un paese dove il diritto di portare armi non è iscritto nella Costituzione, e comunque ci vuole un porto d’armi per possederle, in base a una legge in teoria particolarmente severa. “Il livello di violenza, non solo contro gli stranieri, esprime un malessere molto più profondo che sta nella società”, è stata un’altra frase di Graça Machel. “Il livello di rabbia e aggressività tra i sudafricani è anche peggio di quel che possiamo aver mai pensato”. Omicidi a parte, i sondaggi rivelano che una donna su tre denuncia di essere stata stuprata, e un uomo su quattro ammette tranquillamente di essere stato uno stupratore. D’altra parte il primo stupratore del paese è lo stesso presidente Jacob Zuma. Nato nel 1942, figlio di un poliziotto, durante l’apartheid è più volte arrestato ed esiliato per la sua partecipazione all’ala armata dell’African National Congress. Presidente dell’Anc nel 1990, dal 1999 diventò vicepresidente del Sudafrica, col successore di Mandela e continuatore della sua linea moderata Thabo Mbeki. Ma nel giugno del 2005 fu prima costretto alle dimissioni da deputato, poi rimosso d’autorità da Mbeki dalla vicepresidenza per un grave scandalo di tangenti su commesse militari. E quando a ottobre iniziò formalmente il processo si abbatté su di lui tra capo e collo la seconda gravissima accusa di stupro. A tirarlo in ballo, la figlia di un amico di famiglia, che tra l’altro era pure sieropositiva. Al processo, nel febbraio successivo, si difese spiegando che la ragazza “era consenziente”. Lo avrebbe capito dal tipo di succinto costume tradizionale che lei si era messo, ed è “contro l’etica zulu respingere una donna”.
    I giudici gli credettero, o fecero finta, visti gli attivisti della sinistra dell’Anc che manifestavano davanti al tribunale, minacciandoli di morte. Ad aprile fu dunque assolto. Tutti i giornali lo presero però in giro quando lui, che tra l’altro era pure presidente di una commissione per la lotta all’Aids, spiegò che per non essere contagiato si era fatto “una bella doccia”. Il che forse spiega il perché in Sudafrica ha l’Hiv una persona su nove. Nel maggio del 2006 l’Anc lo reintegrò nel suo status di membro del partito, e nel settembre successivo il processo per corruzione fu stralciato. Lui infatti aveva fatto ricorso, sostenendo che le evidenze esistenti non erano valide, in quanto derivanti da due perquisizioni illegali. La querelle sembrò risolversi nel novembre del 2007: la Corte suprema disse infatti che aveva torto, e che le due perquisizioni contestate erano perfettamente conformi alla legge. Ma nel dicembre del 2007 lui diede battaglia al congresso del partito e sconfisse Mbeki, cercando di sottrarsi alla giustizia con l’arrivare alla massima carica dello stato. Nel giugno 2008 il ministro della Sicurezza Charles Nqakula, suo alleato, decise di smantellare gli Scorpions; la polizia speciale anti corruzione da cui Zuma era stato incastrato. Il 24 settembre 2008 Thabo Mbeki fu costretto alle dimissioni da presidente. Il 6 maggio 2009 Zuma fu eletto presidente del Sudafrica, come candidato dell’Anc. Da capo dello stato, sarà raggiunto da un’ulteriore polemica per aver fatto raddoppiare i costi di mantenimento della famiglia presidenziale: da 8 milioni di rand spesi sotto il suo predecessore Thabo Mbeki a 15,5 milioni (al cambio, da un milione di dollari a due milioni).

    Zuma si è sposato ben sei volte: nel 1973 con Gertrude Sizakele Khumalo; nel 1976 con Kate Zuma; nel 1982 con Nkosazana Dlamini; nel 2008 con Nompumelelo Ntuli; il 4 gennaio 2010 con Thobeka Mabhija; infine il 20 aprile 2012 con Gloria Bongekile Ngema. E’ vero che nel frattempo due di queste si sono perse per strada. Nkosazana, quella che aveva il carattere più forte, dopo aver approfittato dell’aiuto del marito per fare carriera politica, una volta diventata nel 1994 ministro della Sanità ha deciso nel 1998 di divorziare. Nel 1999 è poi passata agli Esteri, e nel 2009 quando il suo ex marito si è insediato si è fatta mettere agli Interni. Infine, il 15 luglio ha fatto un passo ulteriore, venendo eletta presidente della commissione dell’Unione africana. Insomma, la Barroso del continente nero. La povera Kate, quella col carattere più debole, nel dicembre 2000 si è suicidata, definendo la sua esperienza matrimoniale “24 anni di inferno”. Ma le altre restano, secondo un uso tribale zulu che in nome del multiculturalismo il Sudafrica del post apartheid accetta. Sempre secondo un uso tribale zulu, quello della lobola, Zuma ha “acquistato” inoltre tre concubine: una di loro, al prezzo di dieci vacche. Al budget presidenziale sono accollati anche venti figli: a carico dello stato fino ai 27 anni, visto che “né lavorano, né studiano”. Lui dice comunque di esserne orgoglioso: “Mica come quei tanti politici in giro che le loro amanti le nascondono”. La poligamia dichiarata non ha impedito alla chiesa della Comunità del Pieno Vangelo, denominazione cui appartiene, di farlo pastore onorario.

    Il bello è che proprio le attiviste della Lega femminile dell’Anc si sono mobilitate contro la concessione della libertà provvisoria a Pistorius, riunendosi a decine davanti al tribunale con cartelli “Pistorius deve marcire in galera”. Per dimostrare contro la violenza domestica, hanno detto, nel paese che ha anche il tasso più alto al mondo di donne uccise dai partner… Ma intanto Zuma si è ritrovato a sua volta ostile il nuovo e molto più giovane leader che dopo averlo appoggiato contro Mbeki gli si è rivoltato contro, accusandolo di essersi a sua volta imborghesito. Torniamo, appunto, a Julius Malema.
    Il cranio sempre rasato, di etnia pendi, figlio di una domestica nubile, Malema è entrato in politica a nove anni, coi Giovani pionieri dell’Anc. A 14 anni presidente dei giovani dell’Anc della sua regione, a 16 presidente degli studenti dell’Anc della provincia di Limpopo, a 20 presidente degli studenti dell’Anc a livello nazionale e a 27 presidente della Lega giovanile dell’Anc, Malema anche dopo l’elezione di Zuma ha continuato ad agitarsi: chiedendo massicce nazionalizzazioni, cantando le vecchie canzoni del tempo della lotta anti-apartheid che incitavano a “uccidere i boeri”, contestando le scelte internazionali del governo, finché a trent’anni non lo hanno sospeso, e a 31 appunto espulso. Proprio la rivolta dei minatori gli ha offerto l’occasione di tornare alla ribalta, da una parte appoggiando gli scioperanti, dall’altra tentando di collegare quella protesta a un’agitazione di militari scontenti che ha portato Zuma a sospettare addirittura velleità golpiste. Alleati con il teoricamente espulso Malema c’erano però tre pezzi da 90 del partito come il vicepresidente Kgalema Motlanthe, il Tesoriere generale Mathews Phosa e il ministro dell’Insediamento umano Tokyo Sezwale. Quest’ultimo è, curiosamente, uno dei quattro milionari neri che da leader dell’Anc si trasformarono in imprenditori approfittando di quel sistema del Black Empowerment, per cui i capitalisti bianchi acconsentirono di cedere asset a una nuova borghesia nera. Qualcuno sostiene che alla base di tutto ci sono appunto i problemi della nuova borghesia mineraria nera del Black Empowerment che con la crisi sta rimettendoci soldi a palate. Avrebbero dunque appoggiato Malema per farsi espropriare, e ricevere così un indennizzo che sarebbe in realtà un bailout mascherato.

    Lo scontro c’è stato a dicembre, alla 53esima Conferenza nazionale dell’Anc. Candidatosi Motlanthe alla presidenza contro Zuma, si è ritrovato però contro l’altro dei quattro tycoon: Cyril Ramaphosa, il sindacalista che nel 1987 guidò il grande sciopero con cui si disse che “iniziò la fine dell’apartheid”, e nel 1991 divenne segretario dell’Anc. Nel 1996, quando la Anglo American decise di mettere in vendita “ai neri” la Johnnics, si costituì per acquistarla un consorzio cui stato e sindacati offrirono 1,8 miliardi di dollari per compiere l’operazione. E Ramaphosa si mise alla presidenza di quel consorzio. Il 18 dicembre, contati i voti, si è visto che Zuma aveva vinto, con 2.986 voti su 3.977. E il nuovo vice è diventato appunto Ramaphosa, che a questo punto si propone come possibile erede di Zuma, dopo avergli fornito il decisivo appoggio della nuova imprenditoria nera contro le rivolte di minatori e vignaioli.
    Le prossime elezioni saranno nel 2014. Probabilmente ad aprile. Zuma ha intanto fatto sacrificare 12 mucche per propiziare la propria rielezione a presidente del Sudafrica per un secondo mandato, dopo aver spiegato che amare i cani “è parte della cultura europea, non di quella africana”. Ma a vent’anni dalla fine dell’apartheid, il risvolto dell’economia vibrante da Brics è una disoccupazione galoppante, tra il 25 e il 40 per cento. E sistemi educativo e sanitario fallimentari. E “spaventosi livelli” di corruzione (per cui ai Mondiali di calcio del 2010, per esempio, i costi sono lievitati del 50 per cento). E infrastrutture carenti. E metà della popolazione che vive con meno di 2 dollari al giorno. Il Sudafrica ha infatti il peggior coefficiente di Gini sulla distribuzione della ricchezza del mondo, e la speranza di vita è addirittura diminuita dai 61 anni del 1994 a 52. C’è da stupirsi se quando minatori e vignaioli iniziarono ad agitarsi qualcuno iniziò a parlare di un possibile rischio di “Primavera araba”?
    Ma la grande domanda che resta in sospeso è: riuscirà il modello creato da Mandela a sopravvivere alla morte di quel Mandela che riusciva a sostenerlo con il suo semplice prestigio, pur non avendo più nessun incarico formale?