L'attrice Gina Lollobrigida e Alberto Moravia (LaPresse)

Delendo Moravia

Matteo Marchesini

Nel secondo atto del dramma più noto di Vitaliano Brancati, “La governante”, il modello che ispira la figura di Bonivaglia è la evidente parodia dei ritratti analitici e morbosi di Moravia

Nel secondo atto del dramma più noto di Vitaliano Brancati, “La governante”, fa la sua comparsa un personaggio in apparenza fuori posto. Siamo nel soggiorno di una famiglia siciliana trapiantata a Roma, i Platania. Il patriarca è un vecchio burbero, un tempo spietatamente autoritario e ora – dopo che la figlia è stata spinta al suicidio dalla sua severità – forzatosi a un permissivismo inautentico e comicamente goffo. Intorno a lui ci sono Elena, una nuora civetta, stordita e visionaria; Enrico, un figlio affetto da gallismo; Jana, una servetta selvaggiamente sicula; e Caterina, la nuova governante francese e calvinista, che sembra portare una ventata di esotico rigore in una casa in cui pregiudizi arcaici e leggerezza morale convivono sotto l’insegna di un fiacco conformismo, cattolico solo a parole. Dunque, tra questi personaggi così modesti, compare a un tratto uno scrittore: e non uno scrittore qualunque, ma “il più celebre di tutti”.

 

Brancati lo chiama Alessandro Bonivaglia, e lo descrive così: “E’ un uomo di quarant’anni, che si direbbe contemporaneamente allegro e annoiato, felice di lavorare e stanco, sicuro di sé e pieno di oscuri presentimenti, a giudicare dal modo con cui sbadiglia, fa scrocchiare le dita, si diverte, impallidisce, si rivolta sul divano come un malato sul letto, ride bruscamente, dice tutto d’un fiato: ‘Ah, vorrei morire!’. Qualcosa d’infantile e di gaio è nell’atto con cui egli comprende le cose, ma invariabilmente il risultato di ogni suo sforzo mentale è una cognizione lugubre”. Sembra che Bonivaglia sia capitato lì per sedurre col minimo sforzo la fatua e ottusa Elena. Lei gli dice che dal parrucchiere le pare di aver visto una sua foto su Life.

 

Lui è così vanitoso che per esser certo della notizia le chiede di telefonare al negozio. E intanto non smette di sbadigliare, di tornire aforismi, di sgranare i suoi meccanici “Ah, com’è triste la vita!”, i suoi pigri “Ah, vorrei morire!”. Ma i noiosi automatismi della seduzione hanno trascinato Bonivaglia nel bel mezzo di un dramma familiare. Caterina, che con la sua aria rigorosa e premurosa si è già conquistata la fiducia dei Platania, ha insinuato che la servetta Jana le riserverebbe delle attenzioni lesbiche. Così il vecchio Platania l’ha cacciata, recuperando un po’ del suo autoritarismo. Bonivaglia ha saputo del fatto, e ha creduto che ci fosse un errore. Elena lo stuzzica notando che il suo intuito di scrittore non gli è servito per capire l’anormalità di Jana, ma lui si giustifica osservando che gli artisti vedono ciò che è utile alla loro immaginazione: così a suo avviso la serva era solo “una povera bruta, sana, onesta, priva di sensualità e nello stesso tempo, per la sua innocenza assoluta, portata ad attirare su di sé tutti i sospetti”.

   

Ancora nessuno sa che Alessandro ha visto giusto: che la vera lesbica è proprio Caterina, la quale ha trovato in Jana un capro espiatorio. Lo scrittore se ne accorge più avanti: quando, dopo aver tentato di sedurre la nuova serva Francesca – sembra pigro, ma il suo istinto erotico è vigilissimo – la francese lo attacca di colpo facendone un ritratto feroce. Accusa Bonivaglia di essere un “frigido” che “scrive intingendo la penna nel vomito”. E continua con un’analisi che ricalca le critiche “freudiane” di Umberto Saba ad Alberto Moravia. “Direi che durante la fanciullezza” azzarda Caterina “lei non riuscì a espellere dallo stomaco il disgusto che qualcuno – non so chi – le aveva dato, e ora la sua ispirazione consiste tutta nel cercare le cose più ripugnanti che le diano quello stesso impulso che allora rimase interrotto, nella speranza che questa volta lei possa sfogarlo interamente”.

 

Secondo Caterina, Bonivaglia, che ora possiamo chiamare Bonivaglia-Moravia, descrive sempre amplessi e corpi femminili nudi proprio perché lo disgustano: le sue donne in astratto potrebbero esser belle, ma gli aggettivi dello scrittore “si sparpagliano su di loro come vermi”, rendendole macabre. È a questo punto che lui la guarda fisso, e senza spiegarsi ulteriormente le chiede perdono: ha infatti capito, da un minimo indizio, che quell’aggressione dipende dal fatto che Francesca è l’amante di Caterina. Chi nutrisse ancora dubbi sul modello che ispira la figura di Bonivaglia, può toglierseli leggendo la scena in cui i Platania commentano un suo racconto, evidente parodia dei ritratti analitici e morbosi di Moravia: “Egli rivide quel volto ovale, denso di una carne giovane ma leggermente tumefatta, le labbra piccole e rivoltate in fuori, come se fossero rimaste così in seguito a un atto profondamente irregolare, gli occhi tondi, penetranti e luttuosi (…) Ma quello che più piaceva, di quel volto, a Rodolfo Mauri, non era la sensualità delle labbra porcine, né gli occhi che s’intorbidivano rapidamente rimanendo fissi come quelli di una gatta privata dell’uso delle gambe e di ogni capacità di reazione dall’odore del maschio che s’avvicina ma l’espressione di stupidità (…) Nulla per Rodolfo Mauri era più eccitante della stupidità, accompagnata dall’eleganza e da un certo estetismo”.

   

Brancati lavora alla “Governante” nell’autunno del 1951, a Taormina. Anche Moravia è lì, e leggendola si riconosce nel ritratto. “Non troverai un attore che lo sappia fare” dice di Bonivaglia. Ed è così irritato che più tardi, quando la censura colpisce la pièce, rifiuta di scrivere la prefazione al pamphlet di protesta del collega. Ma a parte i tratti caricaturali, Bonivaglia-Moravia è una figura “di molto rilievo”, come scrive l’autore. E’ l’unico personaggio che capisce cosa sta succedendo; l’unico, con Caterina – che in una battuta anticipa perfino il titolo moraviano “il mondo è quello che è” – a leggere negli altri fino in fondo. E non a caso sarà Bonivaglia a scoprire l’orribile conseguenza finale del dramma.

  
Quello di Brancati non è l’unico ritratto che dell’autore degli “Indifferenti” ci abbiano lasciato i suoi colleghi. Da Mino Maccari a Giorgio Manganelli, Moravia li ha stimolati come nessun altro alla caricatura, alla parodia e alla satira. È stato infatti, nel nostro Novecento, lo Scrittore per antonomasia; e al tempo stesso, con la sua inarrestabile e quasi meccanica produttività, un’assoluta eccezione all’interno di una letteratura così antiromanzesca come quella del Belpaese (Antonio Delfini, esempio di un’eccentricità letteraria che è invece assai italiana, raccontava che una sua amante era rimasta delusa perché “credeva ch’io fossi Moravia”, ossia una bottega letteraria sempre aperta). Da un lato, insomma, Moravia è fin troppo rappresentativo, col suo volitivo profilo di ambasciatore dell’esistenzialismo e dell’engagement, del marxismo borghese e del freudismo; ma dall’altro lato, il suo cocciuto talento di narratore è visto come qualcosa di mostruoso ed estraneo al calligrafismo e al manierismo delle patrie lettere. Molti scrittori, obliqui quanto lui è frontale, frammentari quanto lui è organico, hanno ironizzato sulle semplificazioni brutali con cui in ogni suo libro pone un problema e lo “risolve”. C’è per loro qualcosa di impudente nella schematica e realistica limpidezza con la quale Moravia descrive ciò che è più opaco e irreale, squallido, oscuro; qualcosa di inaccettabile e sfacciato nella sua lingua grigia fino alla nausea, nella sua attitudine a prender di petto e a ridurre ai minimi termini i massimi sistemi.

  

Ma è impossibile ignorare questo talento indistinguibile dalla volontà, questa fabbrica di romanzi che produce a rigorosi ritmi impiegatizi (diceva Cesare Garboli che “la vita di Moravia, dopo ’Gli indifferenti’, non è stata che la funzione di scrivere”: come quella di Thomas Mann). Così, in una letteratura di stilisti e di sofisti, la prosaicità moraviana è divenuta presto proverbiale. E poiché a volte basta appena un tocco in più per trasformare il suo studiato grigiore in una sciatteria da romanzo di consumo, aggiungere quel tocco e farne una caricatura è stata per molti una tentazione irresistibile. La parodia di Moravia, la riduzione della sua rocciosa coerenza poetica a un grottesco bignami porno-social-esistenziale, è diventata quasi uno sport: il sintomo di una diffidenza o di un’invidia, ma insieme il segno tangibile del fatto che il romanziere ha imposto a tutti il suo mondo. Già per la generazione dei Cajumi e dei Malaparte, la “porca borghesia” di Moravia, e quella sua Roma in cui “piove sempre”, sono soggetti poetici passati nella storia del costume nazionale.

 

E nelle cronache di Maccari ed Ennio Flaiano, la logorrea narrativa e la costante presenza pubblica dello scrittore fanno ormai del suo nome un inevitabile condimento della chiacchiera borghese. Nell’angolo di un salotto romano anni Cinquanta, tra cocainomani e commendatori, Flaiano descrive un conciliabolo in cui “si parlava male del penultimo romanzo di Moravia, nessuno sapendo ancora che Moravia aveva pubblicato l’ultimo due giorni prima”. Gli fa eco uno sfottente motivetto di Maccari: “A gennaio – per ignavia – un romanzo – fe’ Moravia – a febbraio – ne fe’ un paio”. Ancora Flaiano, tra i suoi epitaffi di intellettuali, ne ha lasciato uno esilarante sull’instancabile descrittore degli interni borghesi: “In questa casa signorile con doppi servizi / visse e operò tenacemente / Alberto Moravia / che a supremo fastigio dell’arte sua / la Noia ponendo / in novelle innumerevoli la profuse”. Maccari immaginava che tanta tenacia sarebbe stata premiata: “Rassegnazione del premio Nobel ad Alberto Moravia”, recita una sua battuta. Ma Stoccolma non si è lasciata prendere per sfinimento.

 

La distanza tra il modello e la sua parodia si accorcia quando lo scrittore, dagli anni Sessanta in poi, inizia a scrivere libri sempre più seriali. Secondo alcuni, a questa altezza Moravia è ormai un moraviano qualunque. Certo lo schematismo si accentua. Scene allegoriche come quella ancora giovanile della “Disubbidienza”, in cui il protagonista scopre che i genitori lo fanno pregare sotto un’immagine della Madonna dietro cui c’è una cassaforte, diventano la regola: denaro, ideologia e sesso si specchiano in costruzioni sempre più scoperte e astratte. A volte lo scheletro intellettuale che regge le trame è quasi nudo, rivestito appena dalla carne dei personaggi: e in primo piano restano solo il puro ragionamento illustrato, la stucchevole interrogazione su un dettaglio della vita intima, o l’estenuante tentativo di definizione di un sentimento qualunque. I set sadomaso accuratamente arredati per pagine e pagine servono ad arrivare alla descrizione di amplessi in cui a unirsi non sono più un uomo e una donna, ma la Borghesia e il Proletariato, e in cui un rapporto “more ferarum” sta magari a indicare una dinamica di classe o l’alienazione nella società contemporanea. E’ il Moravia che rischia di esser travolto dalla comicità. Come dimenticare, nella “Vita interiore” (1978), il minuzioso indugio sulla scena in cui la protagonista entra nella camera della ricca matrigna americana e scopre il suo rapporto a tre con la governante Chantal e con l’amministratore Tiberi, che prendendola da dietro le sussurra “dammi l’America”?

  
Della “austerità e bruttezza” di questo Moravia ha parlato Giovanni Raboni a proposito del dramma “La cintura” (1985), dove un personaggio ossessionato dalla bomba atomica non può fare l’“amore normale” ma vuol essere percosso da una cintura, e dove “il rapporto fra queste sue esigenze e l’ossessione della bomba” appare nella sua linearità arbitrario e disarmante. Nota Raboni che l’anziano scrittore non è un pornografo, ma semmai un maldestro didatta: le sue scene sembrano “raffigurazioni da ex voto: ingenue e grossolane, impressionanti e incredibili, capaci solo di riprodurre, senza modificarle né ampliarle, le poche idee” dell’artista. Raboni è drastico: meglio se Moravia, nel Dopoguerra, avesse abbandonato la scrittura. Invece lui ha continuato; e da quell’Africa che per l’altrettanto precoce Rimbaud aveva significato il ripudio della letteratura, ritorna ogni volta “più petulante che mai, e con la valigia piena di articoli per il Corriere della Sera”. Di questo Moravia africano e sessuomane, del suo facile esotismo e della sua determinazione a passare subito dalla superficie dei dettagli alle conclusioni generali, ha tentato un “falso” parodico Michele Serra.

  

Ecco lo scrittore alle prese con una fantomatica tribù: “I Boramba mi affascinano anche per i loro costumi sessuali. Nonostante io abbia scritto sul sesso quarantadue romanzi (…) del sesso non mi importa alcunché. Totale indifferenza. La freddezza, del resto, è la qualità migliore di un buon osservatore: dopo essermi accuratamente cosparso di sterco di zebù, mi sono accinto a osservare un accoppiamento tra giovani Boramba, ancora innocente come la riproduzione animale (…) Di lui mi colpirono le dimensioni veramente smisurate del pene, fenomeno tipico delle culture falliche primitive. Quando mi avvicinai per osservarlo (…) mi pregò di lasciar stare la canna da pesca di suo zio”.

  
A vent’anni da questa parodia già leggera, e a vent’anni dalla morte di Moravia, ha ormai poco senso prenderlo a bersaglio: le sue azioni sono cadute, la critica ha iniziato ad abbandonarlo. Eppure, il suo mito irrita ancora, a giudicare dai cenni che gli dedicano oggi autori notevoli come Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni. I due professori-clown hanno fatto di un’accorta stralunatezza una maschera in apparenza immodificabile, ma Moravia riesce a strappargliela: quando ne parlano diventano di colpo acidi, astiosi, pedanti – tutti atteggiamenti assai poco clowneschi. Nel loro accanimento c’è un po’ di maramalderia. Infatti, che senso ha prendersela con l’incolore letteratura moraviana ora che è perdente, e farlo magari in nome dei vincitori, dei Gadda o dei Calvino, dei colorati stilisti scarni o barocchi che ormai da tempo hanno trionfato nelle accademie sul non-stilista, sul grigio narratore nato Alberto Pincherle?

  

Del resto, anche quest’epoca che cerca cibi tanto più sofisticati o sofistici di quelli moraviani, farebbe bene a non sottovalutare la sua logica narrativa che mira all’essenziale, perché è meno semplice di quel che sembra. A personaggi altrettanto raffinati, e altrettanto poco sospettabili di simpatie per la narrativa “tradizionale”, può apparire sotto una luce opposta. Se secondo Godard, che se ne serve per il suo cinema al quadrato, “Il disprezzo” è solo un “volgare e grazioso romanzo da leggersi in treno”, secondo l’intellettualistico Sanguineti è invece una delle prove più sinistramente alte e complete dello scrittore. La verità è che attraverso le sue semplificazioni Moravia coglie la natura insieme ottusa e misteriosa della realtà, la sua irrefutabile ma impenetrabile apparenza. E per restituircela spoglia, senza trucco, deve rinunciare sia ai miti della Vita che a quelli della Poesia: due veli pietosi sulla sua faccia di grave sfinge leopardiana. Dietro questi veli, allora, non resta che uno stile fatto di cenere, non resta che la tautologia: il mondo è quello che è. Tra tante parodie, Raffaele La Capria ci ha lasciato un ritratto affettuoso di questo Moravia “Lapalisse”.

 

I due sono al mare, in vacanza. Durante il giorno l’autore degli “Indifferenti” non ha fatto che battere sui tasti: e La Capria, la cui ispirazione è più rara, lo ha osservato con un crescente senso di colpa. Così a cena è di malumore. Viene servito del pesce castagna, e se ne lamenta perché “sembra di mangiare una castagna bollita”. Al che Moravia ribatte trionfante, “con un ineffabile sorriso lapalissiano”: “E’ proprio per questo che viene chiamato pesce castagna”. Come diceva Brancati? “Qualcosa d’infantile e di gaio è nell’atto con cui egli comprende le cose”, ma il risultato è sempre “una cognizione lugubre”. Lugubre o tautologica: inutile tentar di ingannare la realtà, ha sempre ragione.

  

Ma abbiamo iniziato da un ritratto fantastico, e con un ritratto fantastico chiudiamo. E’ quello che dello scrittore italiano “più celebre” e pubblicato di tutti fa lo scrittore più sfortunato e inedito, Guido Morselli, nel suo “Comunista”. Siamo a fine anni Cinquanta. Qui, a metà romanzo, il personaggio chiamato Alberto Moravia sembra affacciarsi come un puro elemento scenografico: e invece, simile a un agente del Fato o del Caso, è lui a imprimere una svolta al destino del protagonista Walter Ferranini. Ferranini è un anonimo deputato del Pci, che ha trascorso la giovinezza tra lavori sfiancanti e migrazioni, studiando da autodidatta e costruendo cooperative nel reggiano. Non ha nulla a che vedere con la sinistra intellettuale; e quando nella casa di un collega assai più raffinato incontra Moravia, stenta a riconoscere quell’uomo “dalle spalle bene aperte, la fisionomia vivida e amara, parlante”, “quel viso ossuto, la mandibola, l’arco sopracciliare prominente”.

  

Lo scrittore arriva dal Premio Taormina (ancora Taormina!) dove ha fatto il giurato: “Quanti sono in Italia gli scrittori che leggono i libri degli altri?” spiega. “Tre o quattro. Forse io solo”. Poi si mette a discutere di realismo socialista. Ferranini dice di non conoscere il problema, e Moravia, al solito felice di poter rimasticare definizioni fino a ridurle all’osso, “con pazienza (…) gli riassunse i termini della questione”. Intuisce la differenza di classe dell’umile reggiano, e ne è tanto colpito che gli chiede un articolo per Nuovi Argomenti. Fino a questo punto, la crisi esistenzial-ideologica di Ferranini è ancora in incubazione, e prevale in lui la natura severa del gregario. Ma la notte insonne in cui, quasi in trance, butta giù l’articolo, cambia la sua vita. Per la prima volta mette nero su bianco la sua polemica contro la fiducia marxista nella liberazione dagli aspetti mortificanti del lavoro. Il comunismo può distribuire meglio la fatica, non cambiare la sua penosità: oltre la lotta di classe resta la lotta insopprimibile contro la natura. È un pezzo quasi leopardiano: e dopo averlo letto, i capi comunisti prendono contro l’“eretico” Ferranini dei provvedimenti che lo inducono a scelte inattese. Come in Brancati, anche qui il personaggio Moravia – stavolta col suo nome vero – gioca un ruolo decisivo. Di lui si potrà dire tutto: ma dove fa la sua comparsa, sembrano avvisarci i suoi due grandi colleghi, qualcosa succede sempre.

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