Solo magre consolazioni

Roberto Volpi

Una rondine non fa primavera. Il riaccendersi del mai spento problema delle diete, diversamente dalla rondine, segna l’ingresso a vele spiegate nell’estate. Non che di diete non si parli pressoché sempre, pure sotto tormente di neve, ma è con l’estate che alla prova colesterolo si aggiunge quella del costume da bagno e che un  giudice chiamato spiaggia si somma all’ordinaria bilancia. Il risultato è di norma un impazzimento generale, attorno a diete e affini, dove nessuno finisce per capirci più nulla.

    Una rondine non fa primavera. Il riaccendersi del mai spento problema delle diete, diversamente dalla rondine, segna l’ingresso a vele spiegate nell’estate. Non che di diete non si parli pressoché sempre, pure sotto tormente di neve, ma è con l’estate che alla prova colesterolo si aggiunge quella del costume da bagno e che un  giudice chiamato spiaggia si somma all’ordinaria bilancia. Il risultato è di norma un impazzimento generale, attorno a diete e affini, dove nessuno finisce per capirci più nulla.
    In effetti è un gran difficile orizzontarsi. Tant’è che a inoltrarsi nella giungla delle diete scientifiche (dieta Dukan – già bollata come rischiosa dai nutrizionisti – normoproteica, metabolica, proteica con aminoacidi, proteica in cinque fasi) e quasi o punto scientifiche,  tipo solo carne o niente carne, privative (niente di questo) e aggiuntive (molto se non proprio tutto di quest’altro) in infinite varianti e sfumature, mi veniva da ripensare a quando il buon vecchio Illich affermava che “studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova  che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie [intese nel più generale senso di malattie] in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti”. Ma poi, almeno ci fosse lo slancio di un’autentica novità. E invece è tutto vecchio come il cucco, se già un quarto di secolo fa Norbert Bensaid poteva nel suo “Illusioni della medicina” affermare che “bisogna mangiare meno”, aggiungendo che “l’esperienza della guerra ne è la prova: a causa delle privazioni l’obesità era quasi scomparsa, e con essa un gran numero di disturbi digestivi e metabolici”. Se è per questo, anche di più, molto di più: durante la guerra e negli anni immediatamente successivi la mortalità per malattie dell’apparato digerente crollò come neppure la Borsa americana nel ’29 – altro che obesità.

    Dunque il segreto sta, molto semplicemente, nel non mangiare? Segreto non direi proprio, se non fanno che riscoprirlo e rilanciarlo di continuo. Ultimo in ordine di tempo un articolo su Science che porta la  firma  di Luigi Fontana, direttore del Reparto di nutrizione e invecchiamento dell’Istituto superiore di sanità che, alimenti a parte, propugna di ridurre del 25-30 per cento l’apporto giornaliero di calorie, così da arrivare a 1.800-2.000 in media per le donne e a 2.000-2.200 in media per gli uomini. Ma senza dimenticare – come non si dimentica Elena Dusi su Repubblica di venerdì 16 aprile, dando conto di quell’articolo –  che una discesa fino a 1.600 calorie sarebbe il non plus ultra per il funzionamento del cuore e del sistema cardiocircolatorio.
    Vorrei ci si rendesse ben conto di queste cifre confrontandole coi consumi medi di calorie in periodi particolarmente significativi della nostra storia recente. Dunque: 1938/ 39: 2.695 calorie giornaliere pro-capite; 1945-46: 1.753; 1949-50: 2.387. Ovvero, neppure nel pieno della guerra si è scesi a 1.600 calorie, mentre ben sopra le duemila si è rimasti anche nel primo e più duro dopoguerra, per non dire del biennio precedente la guerra. E’ anche soltanto minimamente realistico che si torni sotto quei livelli? Ma poi, perché mai si dovrebbe farlo?
    State attenti e, anche se vi fa pizzicare la lingua, non azzardatevi a porre quest’ultima domanda se non volete passare per autentici cerebrolesi, a tal punto la risposta sembrerà ovvia al vostro interlocutore, fosse pure uno che si è fatto una cultura sulle riviste di gossip (che in verità sulle diete ne sanno una più del diavolo): ma per migliorare il funzionamento del metabolismo e l’efficienza del sistema cardio-circolatorio e incidere così sulla prima causa di morte degli italiani (e non solo degli italiani), quella dovuta a malattie cardio-vascolari, vi sentirete rispondere – si domanda? Ma è proprio attorno a questo autentico campione di ovvietà che qualche dubbio è lecito.

    Grande, grandissimo imputato di questa mortalità, il colesterolo cattivo (giacché ce n’è anche uno buono, il colesterolo Hdl). La storia del colesterolo è di quelle che la dicono lunga su come la medicina proceda con un formidabile spirito dei tempi, accompagnato da un pragmatismo che non ha l’eguale. Già, perché prima il livello del colesterolo veniva considerato congiuntamente all’età, essendo evidente che più passa il tempo, per un organismo, più grasso si accumula nelle sue arterie, più cresce il livello del colesterolo. Poi però ci si è accorti che a collegare colesterolo ed età la proporzione degli affetti da eccesso di colesterolo restava bassa in maniera preoccupante. Ragione per cui si è passati a valutare i livelli di colesterolo in se stessi, in assoluto. Inutile dire che i livelli considerati normali hanno subito continue contrazioni, cosicché gli affetti da colesterolemia non hanno fatto che innalzarsi di conseguenza. Più delle diete sbagliate, sono i continui ritocchi per così dire ope legis  ai valori normali del colesterolo a determinare proporzioni e contingenti degli affetti da colesterolemia. 
    Che, poi, c’è anche chi sostiene che l’alimentazione non c’entra pressoché niente col colesterolo. Gli studi, a più riprese, di quei popoli, come gli eschimesi i lapponi e simili, che si nutrono esclusivamente o quasi di carne rossa, ricca di colesterolo, ma che hanno livelli di colesterolo assai più bassi nei nostri, sembrano in effetti indicarci che qualcosa non quadra dei nostri schemi medico-nutrizionali occidentali. Anche sui francesi si sono fatti studi analoghi: alle prese con quella ch’è la cucina più spropositatamente grassa del mondo, i francesi hanno un’invidiabile vita media e una proporzione di morti per malattie dell’apparato cardio-circolatorio nient’affatto superiore a quella di paesi teoricamente assai più virtuosi dal punto di vista alimentare. A spiegazione di un tale mistero la maggioranza dei pareri converge sulla forza anticolesterolo dei loro vini ricchi di tannini, micidiali disintegratori di grassi (e tutti quelli che non bevono vino? che ne è di loro?). Il fatto è che neppure sui grassi c’è accordo. L’eccesso di colesterolo da un lato, e l’eccesso di malattie e morti per malattie cardio-circolatorie dall’altro, per molti non sarebbero una conseguenza di alimentazioni e diete sbagliate, di eccessi di calorie, di apporti fuori standard di grassi e zuccheri, quanto, piuttosto, di un surplus di stress quotidiani, di veri e propri accumuli di stress.

    E, del resto, gli Inuit avranno pure del colesterolo in meno di noi buzzurri di questa parte d’Europa, sempre pronti a esagerare con patatine fritte e cibi spazzatura, ma resta il fatto che campiamo decisamente più noi di loro. E non perché loro non hanno il nostro servizio sanitario. I calabresi, che farebbero volentieri a meno del loro per recapitarlo  come un pacco dono agli Inuit, campano perfino un filino più degli emiliani, che hanno fatto della prevenzione una religione ma che non sembrano tirarci fuori, in termini di speranza di vita della popolazione, alcun  significativo vantaggio (vedi box in questa stessa pagina).
    Gli Inuit sono dunque più stressati di noi? A occhio non si direbbe. Se la spassano in una sorta di arcadia ghiacciata fuori da tutti gl’infiniti maneggi dello stile di vita occidentale – che vuoi di più a stare alle crescenti schiere di ecologisti-naturalisti sentimentalmente fermi o quasi a Walden, ovvero “La vita nei boschi”,  incapaci di raccapezzarsi sul mistero doloroso (per loro) di come diavolo faccia la speranza di vita dei peggiori (sempre per loro) paesi occidentali a crescere e crescere senza ancora fermarsi se le persone che ci vivono campano male e mangiano peggio (sempre a loro dire). Sarà mica – azzardo – che la vita degli Inuit, al pari della loro alimentazione, è assai meno ricca e variata, e in fin dei conti meno interessante e appagante, della nostra seppur incasinata, e magari  proprio in quanto incasinata, vita/alimentazione?
    I naturalisti-ecologisti alla vita nei boschi ignorano, in effetti, che nelle città, nelle grandi città, si vive mediamente di più che nelle bucoliche e isolate campagne, che più sono isolate, non inquinate, natural style e  più si prestano a schiattamenti improvvisi dei loro bucolici inquilini. E questo non è affatto uno scherzo. La mortalità differenziale premia sistematicamente la città. E, di conseguenza, oltre ai traffici e alle opportunità, anche l’alimentazione che vi furoreggia, fatta di prodotti industriali normalmente sicuri mentre non lo sai mica cosa gli rifilano ai loro prodotti i tanti micro produttori ruspanti che magnificano coltivazioni biologiche neppure fossero la salvezza dell’umanità. Che invece è semmai tutto l’opposto. Scriveva a questo proposito l’Economist qualche anno fa (“Good food?”, dicembre 2006) che “a seguito della rivoluzione verde degli anni ’60  il più massiccio uso di fertilizzanti chimici ha triplicato i raccolti di grano  con un incremento molto piccolo di terre coltivate. I metodi biologici, che contano su rotazione delle colture e letame al posto di fertilizzante, sono molto meno intensivi. Così, produrre le risorse  agricole occorrenti per il mondo in modo biologico comporterebbe parecchio tempo e molta più terra di quella correntemente coltivata. Non rimarrebbe molto posto per le foreste pluviali (there wouldn’t be much room left for the rainforest)”.

    Insomma, le cose non sono affatto così lineari come pretenderebbero di raccontarcele né alla piccola scala individuale né su quella più grande universale. Sulle diete, poi, figurarsi.  Oggi ne furoreggia una, domani un’altra, dopodomani un’altra ancora che fa a pugni con entrambe le precedenti. Per la verità al riguardo i nutrizionisti se la cavano con eleganza ma nient’affatto a buon mercato per chi intenda mettersi a dieta. Infatti affermano che prima di adottare una dieta uno deve sapere di che tipo è il suo metabolismo. Cosicché, spiega a Repubblica Carmelo Rizzo, presidente dell’Accademia Internazionale di Nutrizione Clinica, “il primo step è individuare, grazie ad alcuni test specifici, la propria tipologia metabolica, ovvero la capacità di ogni individuo di trasformare le calorie del cibo in energia”, essendo che “ogni individuo è predisposto geneticamente a metabolizzare i costituenti fondamentali degli alimenti cioè i grassi, le proteine e i carboidrati in base alla propria capacità di adattamento allo stress che può essere lenta, intermedia o veloce”. Dunque, si comincia da alcuni test specifici per individuare di che metabolismo siamo dotati, se lento veloce o intermedio, prima di stabilire di che dieta armarsi. Ma quale che sia la dieta prescelta, ci sono almeno tre elementi comuni a tutte le diete che si rispettino dei quali conviene avere piena coscienza prima di fiondarsi in qualsivoglia impresa dietologica. Primo elemento: non esiste una dieta facile. Secondo elemento: non esiste alcuna dieta che non presenti assieme ai vantaggi anche degli svantaggi. Terzo elemento: le diete di norma contrastano assieme ai grassi, almeno parzialmente, il piacere del cibo, dell’alimentazione, del mettersi a tavola e, quando l’occasione è quella  giusta, dello starci – a tavola. La dieta, insomma, qualsiasi dieta, funziona, in fin dei conti, come un fattore di stress. E qui casca l’asino perché, tra le altre cose, proprio lo stress è, come si diceva, un fattore di accumulo del colesterolo e dei grassi più in generale (mentre il piacere funziona tutto al contrario). E sorvoliamo pure sul fatto che proprio per questo motivo, proprio per essere un fattore di stress, stare a dieta è un’impresa dalla quale si esce di solito con un senso di smisurato sollievo, riprendendo a mangiare come se non più di prima.

    Gesù, ma allora non c’è modo di uscirne, da un tale guazzabuglio – si dirà. Certo che no. E non siamo mica noi a dirlo. Sono loro, gli esperti e le società medico-nutrizioniste; sono loro a lanciare un allarme dietro l’altro sull’avanzare del sovrappeso/ obesità con conseguenti epidemie di malattie metaboliche e cardiovascolari fotografate come tanti Usain Bolt mentre strappano il filo di lana di indici di morbosità/mortalità da primato.
    Tranquilli, trattasi di legge fisica di continuo verificata in natura secondo la quale all’aumento esponenziale di esperti e società mediche di una qualche rispettabile specialità si accompagna invariabilmente un analogo, smisurato aumento di affetti da patologie che in quella specialità rientrano. E’ che se si occupano, medici e società, mettiamo di alimentazione e sovrappeso, vuoi mettere il figurone se tempestano le famiglie col dire che i loro figli sono delle schiere di ciccioni che non possono fare altro che aspettarsi, se non vengono sveltamente da loro tratti in salvo, diabete infantile e disturbi circolatori già dall’adolescenza?
    Ciccioni? Ecco come. Leggiamo dal sito del ministero della Salute che “In attesa di trovare dei parametri di riferimento più adeguati, il Bmi (Body Mass Index) è stato proposto anche per i più piccoli. Pertanto si definisce obeso un bambino il cui peso supera del 20 per cento quello ideale; in sovrappeso se supera del 10-20 per cento”. Ora, a parte il fatto che il ministero ammette candidamente che per i bambini siamo ancora alla ricerca di parametri adeguati per definire il sovrappeso e l’obesità, vien proprio da sbudellarsi dalle risate (fossero cose da riderci) a pensare che di fronte a un peso “ideale” di 20 chili per un bambino mettiamo di quattro anni si è in sovrappeso a 22,01 e obesi a 24,01. Questa, cari lettori, non  è scienza e meno che meno medicina. E’ gioco delle tre carte. E’ il Vanna Marchi del nutrizionismo. Ed ecco infatti la ricetta (dieta alimentare e quant’altro) proposta da un insieme malassortito di forze istituzionali riunite nel progetto “Okkio alla salute” (proprio così, infantilmente, con due kappa, e pensare che dentro ci sono pure i ministeri di Istruzione, Università e Ricerca) per salvare il pupo dall’obesità: “Una colazione adeguata a base di latte (proteine) e cereali (carboidrati), o succo di frutta (carboidrati) e yogurt (proteine); una merenda a metà mattina contenente circa 100 calorie, che corrispondono in pratica a uno yogurt, o a un frutto, o a un succo di frutta senza zuccheri aggiunti; cinque porzioni di  frutta/verdura al giorno; niente bibite gassate e/o zuccherate; un’ora di attività  fisica per 5-7 giorni alla settimana; televisione e videogiochi per non più di due ore al giorno assieme considerati; attività sportiva strutturata”.
    Si strutturassero il cervello, tutti costoro, prima di rischiare di rovinarlo, oltre che alle famiglie, anche ai loro piccoli rampolli, non sarebbe un mucchio meglio?