Il primo giorno di Scola

Paolo Rodari

Quando il 21 luglio del 2002, Festa del Redentore, il patriarca di Venezia Angelo Scola inaugurò il suo ciclo di discorsi alla città, ci fu qualcuno che provò a paragonare il suo testo a quelli che fino all'anno prima, ogni 6 dicembre, vigilia di Sant'Ambrogio, il cardinale Carlo Maria Martini aveva tenuto a Milano. Dice in proposito il vaticanista Sandro Magister: “Il linguaggio del cardinale Martini era più risaputo. Rifletteva la linea culturale e politica che da Giuseppe Dossetti, attraverso Beniamino Andreatta, ha prodotto l'Ulivo.

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    Benedetto XVI ha nominato il cardinale Angelo Scola nuovo arcivescovo di Milano. Scola, fino a oggi Patriarca di Venezia, prende il posto del cardinale Dionigi Tettamanzi che ha guidato la diocesi del capoluogo lombardo dal 2002.

    Quando il 21 luglio del 2002, Festa del Redentore, il patriarca di Venezia Angelo Scola inaugurò il suo ciclo di discorsi alla città, ci fu qualcuno che provò a paragonare il suo testo a quelli che fino all'anno prima, ogni 6 dicembre, vigilia di Sant'Ambrogio, il cardinale Carlo Maria Martini aveva tenuto a Milano. Dice in proposito il vaticanista Sandro Magister: “Il linguaggio del cardinale Martini era più risaputo. Rifletteva la linea culturale e politica che da Giuseppe Dossetti, attraverso Beniamino Andreatta, ha prodotto l'Ulivo. Nei suoi discorsi di Sant'Ambrogio si intravedeva la penna di Franco Monaco (a lungo presidente dell'Azione cattolica ambrosiana su mandato di Martini, ndr), e Luigi Pizzolato, gli esperti di politica italiana da lui più ascoltati e apprezzati. Oltre che esperto, Monaco era anche parlamentare della Margherita. Pizzolato invece occupava alla Cattolica la cattedra di Storia del cristianesimo che era stata di Giuseppe Lazzati, è stato presidente di Città dell'Uomo ed era ulivista fervente. Di Scola, invece, l'ascendente è don Luigi Giussani. L'antecedente biografico è Comunione e liberazione. L'impronta teologica ed ecclesiastica rimanda a Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar, a Joseph Ratzinger e Camillo Ruini. Nella sua prima omelia politica nella Festa del Redentore, Scola aveva dichiarato apertamente il suo debito alle analisi di Ruini sulla 'transizione' italiana. Come in Ruini, anche in Scola il parlare politico non rifletteva alcuna particolare sintonia con una frazione del Parlamento italiano. A Camaldoli, ai cenacoli estivi del cattolicesimo ulivista, Scola si sarebbe ritrovato spaesato. A differenza di Martini che vi era di casa”.

    Sono passati nove anni dal 2002. A Martini è subentrato a Milano il cardinale Dionigi Tettamanzi, che lascia in queste ore. Ma il paragone tra le due linee ecclesiali e politiche, l'una più votata all'impatto dentro le sfide della contemporaneità, ratzingeriana, e l'altra della chiesa che fu di Dossetti, più votata al nascondimento sui temi etici, ma sempre sottilmente politica, regge ancora. Con un approccio molto “pastorale”, gli anni di Tettamanzi sono scivolati come acqua sulla pietra, senza scalfire il mainstream della curia ambrosiana forgiato nei lunghi anni di Martini (quelli di Scola, settantenne, saranno giocoforza molti di meno).

    Ed è per questo che ha sorpreso molti la decisione del Papa di ribaltare le carte in tavola, o almeno di imprimere una svolta: dopo trentun anni (Martini arrivò a Milano nel 1980) la guida di una delle diocesi tra le più grandi e prestigiose del mondo cambia radicalmente conduzione. Il punto non è tanto, nonostante le frizioni che hanno caratterizzato nei decenni passati il rapporto tra Cl e la curia di Milano, che arrivi un figlio spirituale di don Giussani. Ma che dopo due porporati fortemente istituzionali e legati a una chiesa della mediazione, sempre alla ricerca del dialogo con il mondo, arrivi un cardinale sulla carta profondamente diverso, “carismatico”. Carismatico nel senso che la sua formazione è stata segnata da una importante appartenenza a un movimento ecclesiale: l'appartenenza a Cl portò Scola a essere escluso dal seminario di Venegono, quello stesso luogo spirituale e di studi dove Giussani si era formato. Questo sorprende: che Benedetto XVI abbia scelto di caratterizzare in senso carismatico quella che, a detta dei più, è la nomina più importante del suo pontificato. Un magistero carismatico, dicono a Milano, significa, sulla carta, contenuti forti da contrapporre a un pensiero, quello del mondo laico, sempre più debole sui valori. Un'idea precisa di linea ecclesiale, dunque. Ha detto recentemente al Foglio Alberto Melloni: “Chiunque verrà scelto sarà il ‘prescelto' del Papa. Perché è evidente che se su altre diocesi Ratzinger accoglie i pareri dei suoi collaboratori, su Milano decide in autonomia. Non c'è per un Pontefice nomina più importante di Milano. Perché la nomina è un'autostrada verso il papato e, quindi, decisiva più per la chiesa nel suo insieme che per la diocesi ambrosiana. Insomma, il sospetto che il successore di Tettamanzi possa fare la fine di un Achille Ratti (poi Pio XI) o di un Giovanni Battista Montini (poi Paolo VI) è grande”.

    Milano è una città dove le sfide che la chiesa cattolica deve affrontare sono molteplici. E dove l'abitudine a prenderle di petto non è sempre esplicita. Due giorni fa, mentre Tettamanzi beatificava don Serafino Morazzone, suor Enrichetta Alfieri e padre Clemente Vismara davanti ai fedeli riuniti in Duomo, la chiesa valdese a pochi giorni dal gay pride “benedetto” dalla nuova giunta di Giuliano Pisapia celebrava un matrimonio tra due persone omosessuali. I giornalisti hanno incalzato la curia ambrosiana per avere un commento: “Il cardinale non commenta a uso e consumo dei media”, spiega al Foglio un monsignore ambrosiano pochi passi fuori dalla sede della curia. “Ha scritto un'infinità di libri sulla famiglia e il valore del matrimonio, andate e leggervi quelli”. Milano è la città dove la sfida interculturale e interreligiosa è particolarmente sentita, e politicizzata. Due anni e mezzo fa i musulmani manifestarono in piazza San Babila arrivando poi a pregare sul sagrato del Duomo. In molti chiesero a Tettamanzi una risposta. L'arcivescovo non si ribellò pubblicamente alla “profanazione” di un luogo simbolo della cristianità occidentale. Non reagì. Egli scelse il dialogo e non i proclami. Per molti, un segno di arrendevolezza.

    Eppure, proprio sul tema della convivenza con l'islam, un vescovo come Scola che a Venezia ha fondato e fatto crescere un centro studi dialogante come Oasis, ma di alto profilo culturale – anche in questo “ratzingeriano” – a Milano potrebbe dire la sua. Massimo Cacciari lo conosce bene, ha un “legame fortissimo di amicizia che spero continui anche ora”. Ritiene che Scola sia in realtà un “campione” nel dialogo con l'islam. E pensa, in controtendenza forse a un giudizio diffuso, che la sua linea di apertura “sia molto più vicina a quella di Tettamanzi di quanto si pensi”. Dice: “Ho letto oggi la lezione che Magdi Allam ha pensato di fare sul Giornale a Milano e alla sua chiesa. Ecco, se c'è una linea dalla quale Scola è distante è la linea di Allam. Sa bene che in Italia i cristiani non debbono assolutamente essere salvati dall'islam, come invece dice Allam, ma piuttosto sono i musulmani che necessitano di accoglienza da tutti indistintamente. Scola si è sempre speso per trovare sistemazioni adeguate ai fedeli di altri credo religiosi, ciò non va dimenticato. Scola raccoglierà la sfida dell'islam e la giocherà come sa fare”. E aggiunge Cacciari: “Credo sia anche per il suo importante sforzo verso l'islam, che il Papa porta oggi Scola a Milano”.

    Sarà dirompente, l'arrivo di Scola, anche rispetto alla realtà ecclesiale di Milano? Don Severino Pagani, vicario episcopale della pastoralità giovanile della diocesi, invita ad alzare lo sguardo. Dice: “Tettamanzi non si è sottratto alle sfide. Ha valorizzato gli oratori che oggi sono frequentati da oltre 500 mila ragazzi. Non è questa una risposta a una città, e di più, a una diocesi in crisi di vocazioni e con attorno a sé un mondo fortemente secolarizzato? Secondo me sì. La strada è questa: ricominciare dal territorio, dai fedeli e non andare dietro agli slogan dei media. Come Martini, Tettamanzi ha cercato di volare più alto della politica e delle sue contrapposizioni. E anche più alto delle polemiche che spesso hanno un respiro esclusivamente mediatico e poco più. E sono convinto che anche Scola farà altrettanto. Ripeteva sempre Martini: ‘Quando un vescovo arriva a Milano la chiesa lo cambia, e non viceversa'. Non aspettatevi, dunque, una linea politico-ecclesiale diversa dal nuovo arcivescovo”.

    Chissà se Milano cambierà il suo nuovo pastore, o se sarà il contrario. Ma è senza dubbio sull'idea stessa di diocesi, di corpo ecclesiale, che sottilmente l'approccio di Scola potrebbe incidere. Paolo Prodi, professore emerito di Storia moderna a Bologna, ha dedicato molta parte della sua ricerca scientifica a indagare le strutture del potere religioso e del potere politico, e i loro rapporti intrecciati, nella storia dell'occidente. Giudica la faccenda proprio in questa chiave storica, e profonda: “La scelta di Scola mi sorprende. Anzitutto perché è singolare che un patriarca di Venezia in qualche modo accetti di ‘retrocedere', mi si passi il termine, a Milano. E' davvero un unicum. Inoltre, personalmente, guardo con una certa preoccupazione l'espandersi dei movimenti ecclesiali a discapito delle chiese locali”. Secondo il professore bolognese, il problema è alla radice, nella storia della diocesi: “Non dico che Scola porterà a un affossamento delle parrocchie e di tutte le realtà ecclesiali territoriali. Dico che però la diocesi di Milano ha avuto come suo grande riformatore san Carlo Borromeo. E cosa fece san Carlo? Presule ben inserito all'interno della curia romana, sposò la chiesa milanese come sua prima e poi definitiva missione. Sposò Milano e la portò ad affermarsi fortemente come chiesa locale, anche in antagonismo rispetto a Roma, un antagonismo che sapeva di fiera autonomia. San Carlo, non a caso, aveva un rapporto complesso con gli ordini religiosi. Guardava con distacco la loro esenzione dalla giurisdizione episcopale, rifiutava in qualche modo tutto ciò che era estraneo alla chiesa intesa come realtà locale, le parrocchie. Il sacerdozio per lui era una professione da esercitare in obbedienza al vescovo. Dopo san Carlo questa tradizione tutta ambrosiana, questa specificità, è andata ampliandosi. Si è sviluppata e, a mio parere, Martini e Tettamanzi ne sono stati degli interpreti degni. Il loro ruolo è stato anzitutto quello di riallacciare quella specifica tradizione ambrosiana, pastorale e insieme sociale. L'arrivo di Scola verrà valutato a posteriori, ma intanto si può dire che la sorprendente scelta del Papa sembra in qualche modo rompere questa tradizione. L'arrivo di Scola sembra l'arrivo di un interprete di una chiesa extra territoriale, senz'altro una novità”.

    Non tutti vedono questa continuità di linea tra le più recenti personalità che hanno guidato la diocesi. Molti, al contrario, vedono una cesura netta avvenuta soprattutto in tempi recenti. Una cesura tra il tempo di Alfredo Ildefonso Schuster (1929-1954), Giovanni Battista Montini (1954-1963) e Giovanni Colombo (1963-1979) e il tempo successivo, quello di Martini e Tettamanzi. E' in particolare un ambrosiano doc, il cardinale arcivescovo emerito di Bologna Giacomo Biffi, a sostenere questa tesi tra le righe delle sue memorie, ripubblicate negli scorsi mesi per Cantagalli. Ai vescovi di Milano degli ultimi trent'anni Biffi dedica solo qualche accenno. Perché per lui – lo si evince leggendo l'intero volume – l'epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento, eredi di sant'Ambrogio e san Carlo Borromeo, si è conclusa con Giovanni Colombo. E' Scola il miracolo che Biffi auspicava a Milano? Dal suo punto di vista probabilmente sì. Anche se è tutto da vedere se Scola avrà l'audacia di affrontare i problemi più difficili, ad esempio la presenza islamica, con lo stesso spirito che ebbe Biffi a Bologna. Disse Biffi in merito all'avanzata dell'islam in Europa: “L'Europa e l'Italia non sono un deserto senza storia né tradizione, da popolare indiscriminatamente, senza rispettare il loro patrimonio culturale e spirituale, che non deve andar smarrito”.
    Marco Garzonio, giornalista e psicologo analista-psicoterapeuta, conosce bene la storia della diocesi ambrosiana. Una parte di questa, l'“era Martini”, l'ha descritta nel 2002 in una fortunata biografia intitolata “Il cardinale” e uscita per Mondadori. Dice: “Martini e poi Tettamanzi hanno interpretato al meglio la tradizione lasciata dai loro predecessori, pastori che fecero dell'attaccamento al territorio e alla gente il senso del proprio magistero. Milano ha avuto fino a oggi pastori capaci di rappresentare un'alternativa vera al potere politico, di mediare nei casi più drammatici e difficili. In questo senso non c'è discontinuità dai cardinali Ferrari (Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, ndr) e Schuster fino a oggi. Negli ultimi decenni Martini ha dato una scossa decisiva alla diocesi. S'insediò che aveva solo 53 anni. Davanti a sé, dunque, gli venne volutamente dato tanto tempo per perseguire il suo scopo principale, quello di portare la Parola di Dio, la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, al centro della vita della diocesi e dell'intera città. L'ha fatto rispettando tutte le voci presenti in diocesi e godendo, non a caso, dell'apprezzamento incondizionato dell'anima più laica della stessa diocesi. Furono anni difficili.

    Nei primi anni Ottanta Milano fu segnata dagli omicidi di Paolo Paoletti, dirigente dell'Icmesa, del magistrato Guido Galli e del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Questa drammatica stagione ebbe un suo epilogo importante il 13 giugno 1984 quando i terroristi consegnarono le armi in arcivescovado. La resa fu a un uomo di Dio, e non dunque a un organismo dello stato. Perché questa resa? Martini era andato a trovarli in carcere, portando loro il Vangelo, parlando loro di riscatto e di conversione”.

    Garzonio, in quegli anni, è stato anche uno dei collaboratori di Martini in quel progetto, molto fortunato anche mediaticamente, che fu la “Cattedra dei non credenti”, con l'apertura di un dialogo culturale della chiesa ambrosiana con la città, mentre a Roma Papa Wojtyla invece la cultura atea la sfidava a viso aperto. Come sarà, in questo, l'impatto di un prelato intellettualmente raffinato, amante del confronto dialettico, come Scola? Giulio Giorello, che da poco ha scritto “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo”, si aspetta molto. Proprio in queste ore sta leggendo un suo saggio per il Mulino scritto assieme ad Adriana Cavarero. S'intitola “Non uccidere”, ed è “la dimostrazione di quanto Scola sia una persona sensibile ai temi culturali che contano”, dice Giorello. Dunque a lei Scola piace? “Non vorrei deludere qualcuno, ma sì, devo dire che mi piace molto. Parto dal saggio che sto leggendo. Scola rilegge il Decalogo e lo interpreta nell'epoca odierna, nell'occidente. E' questo un bisogno, dice, proprio del mondo cattolico e protestante ma anche delle culture estranee al cristianesimo. Ed è proprio questa la prima sfida che Scola ha davanti a Milano: aprire la diocesi alle diversità culturali. Oggi si parla di multiculturalismo. E' un termine che non amo. Preferisco parlare di diversità culturali. Scola ha dimostrato a Venezia e nei suoi scritti di saper accogliere queste diversità, valorizzarle e ascoltarle. Se farà così anche a Milano avrà già fatto tanto”. Poi, per il filosofo della scienza, c'è “la seconda sfida”. Quella della rilevanza del pensiero tecnico-scientifico. “Mi sembra che sotto questo aspetto Scola sia un porporato attento come era prima di lui Martini. Scola sa quanto è importante per la società non castrare il sapere scientifico. E sa quanto è doveroso dialogare con esso, cercare il confronto”. Insomma, per Giorello, Scola è il massimo che Milano possa desiderare? “In un certo senso sì. Seppure un appunto vorrei farglielo”. Quale? “Ogni tanto sento nel sottofondo del suo parlare un po' di diffidenza verso la tradizione illuminista. E' come se egli senta l'illuminismo come una filosofia astratta. Invece anche con gli illuministi si può dialogare. E Milano ha sommamente bisogno di questo dialogo. L'illuminismo è una filosofia concreta, ancorata agli universali concreti appunto. Non si deve aver paura di essa. Essa può essere molto di aiuto anche alla chiesa se correttamente accolta per quello che è”.

    Garzonio torna al confronto col “suo” cardinale, e individua un'altra linea di possibile continuità. Fu nella Milano degli anni Ottanta che iniziò la crisi che coinvolse le grandi industrie. Dice Garzonio: “Nessuno ne parlava ma Martini da subito comprese il fenomeno. Per primo andò a visitare la Pirelli alla Bicocca. Iniziarono i primi licenziamenti alla Falck, all'Alfa Romeo. Martini divenne il punto di riferimento per tanti lavoratori. Non solo, la curia divenne il luogo delle grandi mediazioni, dove le vertenze industriali venivano affrontate e spesso risolte”. A fianco di Martini, racconta Garzonio, c'era un giovane prete che poi divenne un paladino nella lotta in difesa dei diritti dei lavoratori, don Virginio Colmegna. Dopo le prime crisi aziendali la grande crisi strutturale, “la cosiddetta Tangentopoli. Martini la anticipò. Era il 1984. Fece una processione penitenziale per le vie della città. Come ai tempi di san Carlo c'era la peste che dilaniava la città, così Martini vedeva tre grandi pesti presenti a Milano che andavano debellate con tutte le forze: il terrorismo, le solitudini e la corruzione”. Dopo Martini, Tettamanzi. L'attuale arcivescovo, secondo Garzonio, “ha ereditato al meglio il grande patrimonio lasciato dal suo predecessore. Ha avuto attenzione per il lavoro, i poveri, gli immigrati. Con Tettamanzi la chiesa di Milano è rimasta fedele alla sua vocazione: nessuno scadimento sul terreno cedevole della politica ma una chiesa di popolo. Così era la chiesa di Schuster”.
    Dopo Schuster arrivò Montini. Venne mandato a Milano, dice Garzonio, “in punizione principalmente per le sue aperture alla cultura francese – Montini fu uno dei primi diffusori del pensiero di Jacques Maritain – non gradite non soltanto al Sant'Uffizio ma anche al Papa. Da subito appoggiò le Acli e richiamò a predicare i personaggi messi ai margini nell'era Pacelli, ad esempio David Maria Turoldo e Primo Mazzolari. Montini fu il vescovo dei milanesi, della gente, dei lavoratori esattamente come il suo successore, Colombo. Questi stupì tutti con la messa celebrata a Natale alla fabbrica Innocenti a Lambrate proprio mentre l'ormai Papa Montini andava a celebrare messa all'Italsider di Taranto”. E' in questa chiesa, analizza ancora Garzonio, che esplosero i grandi come Giuseppe Lazzati e poi Luigi Giussani. La differenza non è da poco. Come Cl esistono tante altre esperienze associative che hanno fatto della trasversalità rispetto alla vita diocesana il proprio modus vivendi. Basti pensare ai Focolarini o anche alla Comunità di Sant'Egidio. “Martini è stato da sempre vicino al pensiero di Lazzati, sia per gli studi biblici, sia per il suo ministero pastorale” prosegue Garzonio: “Anche per questo è stato spesso attaccato da esponenti di Cl. Agli inizi degli anni Ottanta Martini subì pesanti attacchi dal Sabato, il settimanale nel quale lavoravano molti giornalisti di Cl. poi, nel 1994, l'arcivescovo partecipò al Meeting di Rimini. Ai ciellini disse che bisognava imparare ‘ad andare in esilio', sull'esempio del popolo ebraico. Cioè bisognava imparare a essere ‘piccolo gregge' e ‘lievito'. Credo comunque che solo una chiesa fortemente di popolo e vivace come quella milanese poteva permettere l'espansione di Cl. Una chiesa dove gli arcivescovi hanno portato avanti sempre la medesima linea, quella della chiesa di popolo e di territorio. I movimenti, i carismi, hanno potuto vivere ed espandersi perché sotto c'era una chiesa-istituzione che teneva, che ricuciva, che valorizzava restando fedele a se stessa e vigilava che nessuno dei protagonisti pretendesse di rappresentare la via migliore rispetto agli altri”.

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