L'uomo verticale

Redazione

Pare di vederlo, esiliato dal suo elemento, come un albatros di Baudelaire: “Dove eravamo un mese fa? Ti ricordi? Ebbene, tutte quelle grandi montagne non esistono più, al loro posto cigola il tram sulle rotaie, suona il telefono, si china appesantita la scatola cranica sostenuta appena – fragile stelo! – da una specie di verme solitario”. Dino Buzzati le sognava anche di notte, le sue montagne.

di Carlo Grande

    Pare di vederlo, esiliato dal suo elemento, come un albatros di Baudelaire: “Dove eravamo un mese fa? Ti ricordi? Ebbene, tutte quelle grandi montagne non esistono più, al loro posto cigola il tram sulle rotaie, suona il telefono, si china appesantita la scatola cranica sostenuta appena – fragile stelo! – da una specie di verme solitario”. Dino Buzzati le sognava anche di notte, le sue montagne: “Caro Bepi, la presente per informarti che, la notte scorsa, in piena luce però, naturalmente (col sottoscritto, ahimé, come secondo di cordata) tu, Bepi Mazzotti, hai scalato per la prima volta la parete sud-est del Pelmetto (…) elegantissima arrampicata, su roccia eccellente, in perfetta verticale. Tempo impiegato, 3 ore. Dal terzo al quinto grado. Complimenti. Sul serio! Tuo Dino”. E a un altro carissimo amico, la guida Gabriele Franceschini: “Caro Gabriele, ho il piacere di annunciarti che la notte scorsa – credere o non credere – tu mi hai portato a fare la Solleder sulla Civetta…”.

    I suoi scritti sulle terre alte, che gli Oscar Mondadori raccolgono ora in cofanetto a cura di Lorenzo Viganò (in due volumi, intitolati “I fuorilegge della montagna. Uomini, cime, imprese”. “Uomini e imprese alpinistiche” il primo, “Scalate, discese e gare olimpiche” il secondo) disegnano la parabola di uno scrittore dimenticato un po' in fretta o troppo spesso relegato nei testi scolastici, che seppe dar voce alla natura, al fantastico, all'irrazionale. Un borghese d'altri tempi, rappresentante di un ceto colto, puntiglioso e onesto, coraggioso anche, affascinato dal mistero, dal fiabesco, dall'assoluto.

    Le montagne erano per Dino Buzzati Traverso un richiamo irrinunciabile. Aveva bisogno di assoluto e la montagna era allo stesso tempo enigma e risposta a questo bisogno; metafora perfetta dell'arcano, dell'ancestrale che sempre riverberava dai suoi scritti, dai suoi quadri. Le vette, veleno e medicina dell'esistere: “Ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che quelle”, scriveva a diciassette anni all'amico Arturo Brambilla, il 26 settembre 1923, dalla casa di famiglia di San Pellegrino, vicino a Belluno, dove trascorreva le vacanze estive affacciato alla valle del Piave, davanti a un anfiteatro di vette. Sempre a Brambilla, nello stesso carteggio: “In verità mi domando se valga la pena di fare delle belle ascensioni quando, tornati, si è più tristi di prima”.

    “Molti anni dopo – ricorda Lorenzo Viganò – nel dicembre 1971, ormai malato, tornerà in quel luogo a cercare un segno della madre che lo accompagni e lo sostenga nella ‘partenza con il reggimento', e proprio da lì, lungo la strada che lo conduce a destinazione, rivolgerà alle crode, ai ‘giganti taciturni', il suo ultimo, estremo (e rassegnato) saluto. ‘Ma è una giornata stupenda e poco dopo Brescia ad un tratto ho visto risplendere lontanissime al nord le montagne di vetro, pure, supreme, dove mai più; cari miraggi di quand'ero ragazzino rimaste intatte ad aspettarmi e adesso è tardi, adesso non faccio più in tempo'”.
    Articoli, racconti, riflessioni, testimonianze, cronache, scritte soprattutto per il Correre della Sera a commento di piccoli e grandi fatti, dai raduni dei giovani fascisti durante il Ventennio ai ritratti di alpinisti celebri e delle loro imprese, come le salite del Bianco e del K2. Dalle descrizioni delle sue cime preferite, Dolomiti in testa, all'elogio dello sci e dei campioni olimpici, con le Olimpiadi di Innsbruck nel 1964.

    Buzzati era un alpinista e ci teneva molto a essere considerato tale. Lo fu sin da adolescente: una fotografia pubblicata qualche anno fa in “Buzzati pittore” (edito da Giorgio Mondadori a cura di Raffaele De Grada), lo ritrae, probabilmente da giovane, in cima alla Gusella del Vescovà, un picco del monte Schiara. Compì un centinaio di escursioni, nella sua vita, quasi sempre sulle Dolomiti e qualcuna sulla Grigna. Dal luglio 1921 (aveva quindici anni) al settembre del 1926 le sue lettere sono piene di disegni e di resoconti dettagliati ed emozionanti delle sue scalate, dalla Croda da Lago alla Schiara. Un pellegrinaggio attraverso canaloni, cenge, costoni, gole.

    Gabriele Franceschini, con cui arrampicava regolarmente ogni estate dal settembre 1948, lo ricorda come “un signore sulla quarantina, di corporatura agile, il viso affilato, il cappello bianco a larghe tese, giacca a vento, pantaloni di velluto”. Nel 2003, a 83 anni, lo ricorderà commosso: “Oggi Dino vive dentro di me. Non passa giorno senza che gli rivolga un pensiero, senza che legga qualcosa di suo. Ogni sera prima prego Dio, poi ricordo Dino e infine mi addormento pensando alle montagne”. “Me lo vedo ancora Dino: sempre rasato, pettinato, i calzoni di velluto chiaro, il cappello bianco con la falda, la giacca a vento perfettamente modellata. Infilava i guanti da portiere di calcio, afferrava il lungo bastone e mi seguiva fuori dal rifugio guardando in alto al primo barlume contro le masse nere delle cime. Sentivo che per lui era il momento sognato, giorno dopo giorno, tutto l'anno: la magia. L'Alpe era una sua creazione straordinaria, favolosa, frequentata da spiriti”.

    Buzzati che scrive e Buzzati che arrampica sono legati, come la sua intelligenza è legata al guizzo dell'anticonformista: “I fuorilegge della montagna” sono i protagonisti delle cime, perché la montagna è via di fuga fisica e spirituale e ha come eroi i “senza guida”, persone – scrive Viganò citando lo scrittore – “che erano viste come ‘dei giovani arrabbiati, dei ribelli, dei sovversivi, dei rivoluzionari, delle teste calde (…) dei pazzi da tenere alla larga'. Eppure gli unici, scrisse Buzzati, cui ‘la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura'”.

    Altro che paura. Dino Buzzati ebbe coraggio, la forza senza la quale non si combina nulla, tanto meno in montagna. Avrebbe voluto scalare il K2, si offrì come inviato speciale ad Ardito Desio, nella spedizione del 1953: gli telefonò più volte. “Ero contento di avere al seguito un giornalista come Buzzati – disse Desio – ma quando andai al Corriere della Sera il direttore mi disse che nessun giornalista avrebbe seguito l'impresa. Quando glielo comunicai Dino rimase muto. Il K2 fu per Dino Buzzati un grande dolore: aveva sempre sognato di scalare una montagna inviolata”.
    Altro dolore, non fu accolto fra gli accademici del Cai, “nonostante ci tenesse in maniera particolare – scrive Viganò – Il suo nome venne proposto più volte, ma la candidatura sempre bocciata. Un rifiuto che, come è nel suo carattere, Buzzati accetta da buon soldato, con compostezza e ubbidienza, ma che gli provoca un profondo dispiacere”. “Non posso dimenticare la sua amarezza per quel rifiuto”, dice Walter Bonatti, che gli fu amico: “E' vero, alpinisticamente non aveva fatto grandi scalate, exploit alla Comici, per intenderci (raramente le sue scalate oltrepassarono il terzo grado, arrampicò praticamente sempre da secondo, ndr), ma era alpinista nel senso più profondo, e puro, del termine. E uno straordinario uomo di cultura. Penso che il Cai non l'abbia capito, o addirittura – ma è una mia interpretazione – ne abbia avuto paura. Era talmente superiore che la sua presenza sarebbe forse risultata scomoda”.

    Soprattutto, Buzzati ebbe il fegato di misurarsi con le sue paure e inchinarsi davanti all'ignoto. Era cosciente che il sovrumano esiste e che bisogna farci i conti. Scendere a patti, e se si riesce scherzarci anche su, usare lo humour. Il peccato più grande è smarrire la purezza: “Una grave perdita – scrive nella prima riga di ‘Tribolazioni delle Dolomiti', articolo uscito sul Corriere della Sera il 5 ottobre 1933 – indubbiamente subirono le Dolomiti con la scomparsa degli gnomi…”. Gli spiriti ctoni, i piccoli uomini (“gnomi” da gnosis, conoscenza, disse Paracelso) che conoscono gli alberi, le erbe e gli animali. La natura e il senso del limite.

    Buzzati amava la natura, certo, ma provava anche sbigottimento, uno spavento congenito per la sua indifferenza, per la siderale distanza dell'universo nei confronti delle cose umane. Corteggiava il mistero, in definitiva la morte, il grande enigma, che non per questo ci impedisce di vivere, anzi, esalta il bisogno di vita. E la montagna era un mezzo, un tentativo di riscatto: “Rocce così brave, solide, oneste…”. L'umano, il troppo umano, per esorcizzare con ostinazione l'orrido, che gli faceva l'occhiolino come a ogni romantico che si rispetti. Il “babau”, nei suoi quadri, è una specie di balena, un essere nero e panciuto che veleggia nella notte.

    I corpi delle donne sono rotondi come colline, su di loro si accaniscono formiche, diavoli e mostriciattoli aguzzi, angeli e demoni con cui misteriosamente Buzzati comunica.
    Il giorno dopo la morte dello scrittore (29 gennaio 1972), Indro Montanelli scriverà sul Corriere della Sera: “Con Buzzati se ne va la voce del silenzio, se ne vanno le fate, le streghe, i maghi, gli gnomi, i presagi, i fantasmi. Se ne va dalla vita il Mistero. Ma così come se ne è andato potrebbe anche tornare , alla Buzzati, perché se c'è un qualcosa al di là di noi, nessuno se le è guadagnato più di Buzzati, che ha trascorso la vita a captarne i messaggi e a decifrarli per noi. Ora può darsi che sia lui a lanciarcene qualcuno, ma come potremo afferrarlo? (…). In realtà sembrerebbe che Buzzati messaggi ne avesse lanciati anche prima di morire, ma aveva fatto divieto al vescovo di Belluno (al quale si era confessato) di raccontarlo prima che fossero passati dieci anni. Ma qual era questo messaggio? E' in queste parole, pubblicate sull'Avvenire: ‘Un'ansia inconsueta si accende in me alla sera, come quella del tenente Drogo… Ho bussato , la porta si è aperta'”.

    Nel racconto “Lo spavento dell'antropologo”, che compare nella raccolta, il protagonista affronta i feroci abitanti di un villaggio sperduto: ventidue anni prima di “Un tranquillo weekend di paura”, si intravedono i villici brutti sporchi e cattivi che aggrediscono i turisti, anche se l'antropologo non è propriamente il “macho” Burt Reynolds di John Boorman, che allarga le braccia in riva al torrente con l'arco a tracolla e si chiede: “Dov'è la legge?!”. Nondimeno le sue rocce hanno l'aura dei picchi di Werner Herzog, di Peter Weir in “Picnic a Hanging Rock”. In cima alla Gusella del Vescovà, Buzzati è minuscolo, quasi una formica – una di quelle che amava disegnare – uno degli omarini che abitavano le sue piazze dechirichiane. Uno gnomo.

    Misteri ovunque, nelle sue pagine e nei suoi dipinti: anche davanti al Duomo di Milano, che in un celebre quadro diventa una cattedrale di rocce dolomitiche su un prato verde smeraldo. Un simbolo della sua doppia anima, cittadina e montanara. Pare di vederlo, seduto al tavolo della redazione pensare alle “bianche nuvole che passano lentamente sopra le cime senza eroi spostando le ombre viola su e giù per i burroni (…) mentre il tram cigola malamente alla voltata, lassù i pallidi giganti misteriosi stanno in silenzio”.

    La montagna come “un'ossessione d'amore”, una passione talmente coinvolgente (come sa chiunque abbia letto il bellissimo “Un amore”) da farlo civettare con una sorta di “fascismo alpestre”: “C'è del resto – scrive nel settembre 1933 – nell'essenza del vero alpinismo, un'idealità tipicamente fascista (…) Non è retorica dire che nessuno sport è nei suoi fondamenti spirituali così fascista come l'alpinismo: per il disprezzo delle ricompense e degli applausi, per l'ardimento che ne è la base essenziale, per lo spirito di sacrificio che ci vuole, e infine perché è tipicamente italiano, come sono italiane le Alpi”.

    La montagna è un ideale talmente forte di purezza da spingerlo, negli scritti sulla vicenda del K2, a tenere in disparte, anzi, a non citare affatto le polemiche che ne seguirono, la drammatica ingiustizia di Compagnoni e Lacedelli nei confronti di Walter Bonatti: “Firma un entusiastico e retorico commento – scrive Viganò – molto evocativo, in cui accosta l'‘invidia immensa' provata per ‘quei due uomini in cima alla seconda vetta della Terra', getta acqua sul fuoco delle polemiche, le allontana, si illude di crederle risolte”. Sposa la versione ufficiale, “cade in una trappola”, dirà Walter Bonatti con magnanimità, “per il bene dell'Italia”. “Non so cosa darei – aggiunge – per leggere cosa scriverebbe oggi. Sono sicuro che non avrebbe più tanto rispetto nei confronti di Desio”.

    “Dino Buzzati mi ha salvato – racconterà inoltre Bonatti – perché all'indomani della tragedia del Freney, del gruppo del monte Bianco, tutti trovarono il modo di condannarmi. Adottando un comportamento tipicamente italiano, mi considerarono responsabile della morte dei quattro alpinisti… Buzzati fu come ci si immagina possa essere Buzzati. Andai al Corriere e lui, pur non conoscendomi, mi accolse nel suo ufficio, poco più di uno sgabuzzino, nel quale era però contenuto il suo mondo. Parlammo a lungo, e qualche giorno dopo uscì un bellissimo articolo (21 luglio 1961, ndr), nel quale finalmente si ristabiliva la verità. Davvero quindi mi salvò, nel vero senso della parola”.

    La montagna come ideale, dunque, come ultimo baluardo. A tanti pare offrire così poco, invece quel poco è tantissimo e indispensabile: l'avventura, la rottura della regola, l'antitesi alla pigrizia, alla neghittosità (parola che Buzzati amava), la fantasia la purezza, la poesia in definitiva. Di fronte all'assalto dell'uomo (ovovie, strade ferrate, skilift), Buzzati si schiera quasi sempre: dice no a nuovi impianti, come alla funivia del Cervino o una strada carrozzabile sotto le Tre Cime di Lavaredo, contro la quale incita gli spiriti della montagna a intralciare i lavori. Per la funivia del Brenta accetta il progresso con amara rassegnazione, di fronte al progetto di quella sulla Marmolada bellunese scrive che purtroppo non farà in tempo a vederla ultimata e a godere dello splendido panorama che sarà alla portata di tutti.

    Ambiguità episodiche. In occasione della conquista dell'Everest, topos dell'alpinismo, si chiede: “C'è da essere contenti che sia stato conquistato? E' il 29 maggio 1953 veramente un giorno lieto per l'umanità? Dobbiamo esserne orgogliosi? Ma certo”. E' l'arrivo “sulla cima del mondo, il massimo anelito della crosta terrestre, la rugosità più accentuata di quante ricoprono questa vecchia mela avvizzita su cui viviamo”, “questa piccola borgata litigiosa”. Impresa “paragonabile alla conquista del Polo nord – dice – al primo volo, allo scoppio dell'atomica”. Immagina “il nulla, il vuoto, le voragini blu dell'universo” che gli uomini hanno visto sopra di loro, “la spaventosa e pura felicità che essi provarono”.
    Eppure per noi qui, conclude, “esiliati nella polvere e nei rumori infetti della città, sul piatto fondo di una banalissima pianura”, “l'infinitesima traccia che i quattro ramponi e le piccozze hanno lasciato sulle cornici della suprema cresta, quelle peste di formiche”, “sono malinconiche a vedersi” . “Era l'ultima occasione della nostra fantasia, la superstite rocca dell'ignoto”. “Oggi l'incanto è rotto – scrive – oggi siamo sicuri che la cima favolosa è fatta come le altre, che non vi abitano gli dei della montagna. (…) E' insomma cominciata la sua storia, ma è finita per sempre la leggenda. E adesso? Che resta più da fare? La Terra non sembra diventata all'improvviso più angusta e squallida? (angusta da angst, angoscia, ansia; mali così moderni, ndr).

    Nell'antichissimo castello, in cima alla più superba torre, esisteva ancora una stanzetta dove nessuno era mai stato. La porta finalmente è stata aperta. L'uomo è entrato e ha visto. E di misteri non ne restano più”. Là “si era rifugiata la poesia, coi sogni, le speranze, le illusioni, le bellissime cose inutili tuttavia così indispensabili alla vita. A partire dal 29 maggio scorso, la poesia se ne è andata anche di là. Dove potremo ritrovarla?”.
    La più grave perdita, è ben vero, è la scomparsa degli gnomi e di quello che rappresentano. Solo loro e i corvi sanno in quale luogo segreto e misterioso fu calata l'urna con le ceneri di Dino Buzzati, all'interno di un crepaccio nella sua amata Croda da Lago.

    di Carlo Grande